mercoledì 24 febbraio 2016

L'IO dubitante

1- Il Viaggio
Quando cominciai il viaggio ero sola.
Avevo però una bicicletta e uno zaino: la bicicletta era dotata di un lucchetto, di cui tuttavia non possedevo la chiave; quanto allo zaino, ignoravo cosa contenesse.
L’equipaggiamento era evidentemente inadeguato, ma io partii lo stesso.
Questa valutazione la dò ora, ma allora non ne sarei stata capace: ero sola, portavo con me una bicicletta con un lucchetto senza chiave, uno zaino di cui ignoravo il contenuto e non avevo memoria.
Non un ricordo di me, di chi fossi stata prima, né dei significati delle cose.
È quasi impossibile fornire una descrizione di me in quel momento, poiché siamo abituati a collocare le esperienze nello spazio e nel tempo, così che anche l’idea dell’essere sospesa presupponeva un dove e un quando che allora mi erano estranei.
C’ero io, con la mia bicicletta e il mio zaino, materializzata dal nulla in un luogo di cui avevo cognizione senza mai averne avuto alcuna esperienza, in mezzo ad una realtà fatta di dettagli di cui sapevo il nome e lo scopo, ignorando tuttavia da dove mi fosse venuta questa conoscenza.
Di più: non mi ponevo neppure il problema.
Io ero lì.
Per iniziare il viaggio dovetti prendere un mezzo pubblico e ricordo bene che mi si pose subito l'interrogativo del trasporto della bicicletta : se l'avessi lasciata alla fermata senza chiuderla col lucchetto, sicuramente me l’avrebbero rubata ; se l’avessi chiusa non avrei più potuto aprirla.
Mi sembrò ovvio portarla con me, benché fosse una brutta bicicletta color senape alla quale non ero particolarmente affezionata.
Non mi resi conto subito di essere salita su un batiscafo, ma in ogni caso non me ne preoccupai affatto, dal momento che non sapevo neppure dove fossi diretta e perché fosse così urgente – perché era molto importante che mi imbarcassi su quel mezzo – salire ad ogni costo, con o senza bicicletta color senape con il lucchetto a senso unico.
Il sistema di apertura delle porte del batiscafo mi colpì molto: si scendeva all’interno di un ampio vano illuminato da plafoniere rettangolari attraverso una scala che appariva e scompariva grazie a cuscinetti d’aria. La scala era alquanto solida, in ferro, eppure l’aria permetteva che si potesse aprire e chiudere muovendo una semplice leva. I bracci meccanici sbuffavano come grossi stantuffi, spandendo fumo sull’ingresso della sala.
All’interno del vano, grande e vuoto, si percepiva chiaramente di trovarsi in un ambiente pressurizzato, tanto che mi balenò immediatamente il pensiero di cosa sarebbe accaduto se in batiscafo si fosse spezzato nel cuore di qualche sconosciuto abisso, se cioè avrei avuto il tempo di risalire in superficie, evidentemente abbandonando la bicicletta color senape, oppure avrei trovato la morte sul fondo, in una confusione di lamiere spaccate dalla pressione e raggi di ruota contorti.
Non avevo paura, formulavo un’ipotesi.
Durante il viaggio ricordo di aver provato un solo sentimento: la sorpresa.
Non ne conoscevo altri e non avevo paura perché non sarei stata in grado di dare un senso a questa parola.
L’assenza di memoria, infatti, era mancanza di significati: conoscevo tutti i significanti ma non ero in grado di dare loro un senso.
La mia stessa esistenza era solo un significante, perché il significato era la meta del mio viaggio, per quanto io allora non lo sapessi – ammesso che avessi consapevolezza di sapere o non sapere qualcosa.
Continuavo ad essere sola, eppure c’era stato qualcuno a muovere la leva della scala, ma era sparito.
Quando vidi che sulle pareti del batiscafo si aprivano degli oblò, mi avvicinai e cominciai a guardare fuori, così mi accorsi che non ci trovavamo nelle profondità marine, ma sospesi nell’aria, all’interno di una sorta di dirigibile gonfio di vuoto, costruito con ferro pesante e pelle sottile, così forte da poter sopportare la pressione di un abisso, ma così leggero da poter volare.
Formulai un’altra ipotesi: e se la membrana si fosse spaccata? Immaginai di precipitare in un groviglio di pelle e copertoni di bicicletta esplosi.
Si volava lungo alte rotaie di roccia rossastra, graniti acuminati che minacciavano il cuscino d’aria che ci teneva sospesi. Le punte rocciose graffiavano la pelle rigonfia, eppure si continuava a volare al di sopra di un panorama che mutava continuamente.
Ad un tratto sorvolammo una chiesa in rovina, il cui sagrato era stato trasformato in un cimitero di cianfrusaglie: vecchi pneumatici, materassi sfondati, batterie d’auto – una delle quali aveva inciso il mio nome - bombole di gas che giacevano sul terreno come carcasse di animali di ferro senza vita.
Il posto aveva una sua bellezza e in ogni caso mi incuriosì.
Scesi a questo strano capolinea senza più curarmi della bicicletta color senape col lucchetto prepotente : poteva restare aperta, appoggiata lungo il muro della chiesa, confusa con gli oggetti di scarto di quel giardino .
All’interno la chiesa era stata trasformata in un grande appartamento, con una bella cucina arredata con mobili antichi. Dentro una piccola credenza erano disposti con cura pezzi spaiati di vecchi servizi da caffè, vasetti da fiori minuscoli, tanto da contenere una sola margherita alla volta, una rubrica del telefono con apertura a scatto.
Il posto mi parve bello e la giornata era chiara, rinfrescata da un vento leggero che gonfiava le lunghe tende appese alle finestre come vele.
Mi avvicinai ad una di esse e guardai fuori: vidi che quel lato della collina mostrava una salita piuttosto aspra, lungo la quale si muovevano appesi nell’aria i sedili di pietra di una seggiovia, pesanti panchine sostenute da semplici fili, che salivano sfiorando le pareti della chiesa verso una cima invisibile e lontana.
Sotto i sedili, lungo la ripida strada ghiaiosa, anziani contadini sfidavano la fatica salendo, ansimando, forse cantando.
Mi parve tutto molto bello.
Mi voltai e alle mie spalle c’era un grande letto con alti materassi dove immaginai di fare l’amore, se lui – quale lui, che non avevo memoria di nessuno?- avesse accettato di venire con me.
Il pensiero che mi venne allora fu quello di una nascita, dell’inizio di una vicenda il cui svolgimento dipende dalla risposta che viene data all’ingresso del protagonista.
“Eccomi, sono qui”
È l'eroe di un racconto che si scriverà da solo, nel quale la mano che scrive appartiene a ciò che viene scritto.
E dalla risposta dipende il seguito, lo svolgimento di quel vago disegno che conosciamo e di cui abbiamo perso memoria .
La risposta è il filo sottile che seguiamo per ritrovare l’origine, e mentre la storia si scrive da sé formiamo un gomitolo, che teniamo tra le mani.
Ogni bambino tiene tra le mani il capo di un filo.
“Eccomi sono qui”
“ Sei in ritardo" " Sei in anticipo" " Cosa ci fai tu qui?”.
E il filo segue una via.
“Eccomi, sono qui”
“Finalmente”
E il filo segue un’altra via.
La storia si scrive da sé, ma nel seguire il nostro filo, nel formare il gomitolo che stringiamo tra le mani, stiamo scucendo un tessuto che esisteva già e di cui avevamo solo un vago ricordo.
Viviamo a ritroso, camminiamo all’indietro.
Mi venne in mente di guardare cosa avevo dentro allo zaino.
Pane, una torcia, calze, un cappello, guanti, una lampada a stelo, cibo, strumenti di cui avevo bisogno senza che fossi mai riuscita a formularne il pensiero, altri che dovevano esserci, altri ancora che avrebbero potuto essermi utili, cose che mi piacevano, e più mettevo la mano all’interno dello zaino, più estraevo oggetti e mi si materializzavano di fronte, e parole, nomi, idee che prendevano forma, significati che conoscevo da sempre e non ricordavo, neppure il tempo di pensare davvero che già c’erano, neppure il tempo di pensare a tutto perché c’era tutto, tutto era bianco, un contenuto assoluto.
E tutto questo non occupava uno spazio e non aveva avuto inizio , era qualcosa che esisteva dal momento che ero esistita io, che ero esistita da sempre in un luogo assoluto.
Volevo tornare indietro, volevo tornare a qualcosa, ma ancora non sapevo a cosa.
Sapevo che c’era la luce, c’era il vento leggero, c’era un letto per dormire e fare l’amore, c’erano vecchie tazzine spaiate, uno zaino che conteneva l’assoluto e la mia bicicletta aperta lungo il muro della chiesa, una seggiovia di pietra sospesa nell’aria e carcasse di oggetti inutili seminati su un sagrato.
Mi sarei potuta fermare, ma non volevo, mi sarei potuta unire ai vecchi contadini, o scendere lungo la collina in bicicletta, ma non era quella la mia via.
Non mi restava che scrivere la mia storia, e se fosse stato necessario riscriverla ogni volta che non avessi saputo da che parte indirizzare il mio cammino.

2- L’arrivo
Sono nata, almeno credo.
Numerosi indizi mi confermano che non si tratta di una mia illusione – tra l'altro senza pretesa di fregiarsi del titolo di percezione- ma di un fatto storico.
Eppure potrei dubitarne, se non altro perché una immaginazione, laddove fosse pura essenza autoreferenziale, potrebbe aver costruito tutto, compreso quel senso di appartenenza al quale attribuire il possessivo “mio”.
Tuttavia, avvertendo la necessità di raccontare una vita, fosse anche la stessa pulsione a farlo figlia del medesimo puro spirito immaginante, occorre partire da alcuni punti che vanno considerati fermi: dunque io sono nata.
Sono un essere attualmente vivente in un'epoca definita, in un luogo preciso, con caratteristiche oggettivamente riconosciute.
Posso dubitarne, discutere su ogni termine della precedente proposizione, ma devo considerare la mia nascita l'incipit della mia storia personale.
Potrei spingermi più a ritroso, parlando dei genitori, dei nonni o dei bisnonni, fino a risalire agli albori della storia dimostrando con chiara evidenza che io non sono nessuno, nulla se non un anello qualsiasi di una catena di aminoacidi organizzati in strutture complesse.
Nulla se non ci fosse, in un tempo indefinito, in un luogo impreciso, con caratteristiche oggettivamente inconoscibili, la mia anima che parla.
Si è soliti, per convenzione e pur nel rispetto di credo diversi, attribuire un luogo, un tempo e un corpo alle anime, benché viceversa non sia obbligatorio assegnare l'anima a qualsiasi corpo, come del resto è ampiamente dimostrato dai fatti storici, ammesso che anch'essi non siano frutto di ampia socializzazione di immaginari comuni.
A quest'anima che parla è stato assegnato corpo di genere femminile, dato oggettivo quantomeno dal punto di vista biologico, perché la questione squisitamente emotiva connessa al sesso risulta irrilevante alla nascita, specie per il diretto interessato.
Certo, intorno alla creatura immediatamente si compongono aspettative affatto diverse che ne condizioneranno l'educazione, l'assegnazione dei ruoli ed i relativi dettagli -anche minimi - ma quando il nuovo nato ne prenderà coscienza, talvolta parecchi anni dopo, i giochi saranno già stati fatti e gli effetti saranno irreversibili, indipendentemente dalle scelte personali, che appunto verranno considerate conformi, o viceversa alternative, a proiezioni predefinite secondo modelli convenzionali.
L'invocare necessità naturali a sostegno di stereotipi sociali pare espediente volgare destinato a rafforzare ulteriormente i condizionamenti , già opprimenti a sufficienza.
La modesta leggenda di quest'anima narrante immersa nel relativo corpo, vuole che il coagulo che ne è derivato - quell'individuo che chiamo "Io"- sia faticosamente emerso dal corpo di una madre -la mia, quella che l'anima ha profondamente amato - dopo quasi due giorni di tormenti, con gli occhi spalancati, il corpo tumefatto di lividi e la totale mancanza di fiducia primaria.
Non ricordo di aver attivamente partecipato all'avvenimento, ma in qualche recesso di memoria devo averne conservato l'impronta, quella che spiegherebbe la claustrofobia e l'inclinazione alla diffidenza.
Ed eccomi qui, a raccontare una vita, quella che credo la mia, della quale non ricordo il momento iniziale, determinante.
Eccomi, caduta nella trappola di narrare ciò che mi è stato narrato da altri, che hanno creduto di assistere ad un avvenimento che si colloca perfettamente in altre vite - quelle che coloro che ricordano credono le loro - ma non in quella del diretto interessato.
Nessuno, quindi, mi può garantire che tutto sia avvenuto come mi si racconta, neppure se le diverse versioni coincidono quasi perfettamente.
Potrebbe essere un'interpretazione condivisa, un'allucinazione collettiva, magari un complotto, che nulla ha a che fare con ciò che è realmente accaduto a me ed ho provato io.
Questo io, trascinato in un'avventura senza avere possibilità di parlarne con certezza, né di ricordarne i dettagli o di vederne altro se non il riportato di persone che a loro volta non ricordano nulla della loro vera o presunta nascita, sembra frutto dell'ironia perversa e feroce insita in un progetto, del quale tutti fanno parte.
La scienza ha avuto la pretesa di spiegare il fenomeno di questa clamorosa amnesia, ma per quanto siano state elaborate teorie e prove a sostegno di esse, la chiave di lettura e la loro stessa ideazione sono parto di menti definite adulte e strutturate come tali, che al massimo possono essersi spinte fino a tentativi d'immedesimazione che ritengo grotteschi, essendo attuati da persone che a loro volta non ricordano di essere nate.
Dicono che alla nascita non esiste alcuna consapevolezza della propria esistenza e che persiste a lungo il legame simbiotico con la madre, finché non si acquista coscienza di essere altro da lei, ma da cosa derivi questa stravagante convinzione nessuno è in grado di spiegarlo in modo convincente.
Forse non si nasce, ma più semplicemente si passa in una dimensione diversa con regole totalmente estranee a quelle precedenti.
Si sono studiate le percezioni dell'embrione e del feto, fatto che pare assurdo se riferito unicamente ad un corpo in diverse fasi di sviluppo, laddove non si individui anche un'anima, quella che già ha coscienza, un sentore di esistenza eterno ed assoluto, quella che conferisce all'essere in fieri l'individualità che già, tuttavia, dovrebbe esistere anche nel mezzo io potenziale che alloggia in ogni spermatozoo o in ogni ovulo, con enorme spreco di anime ad ogni mancato concepimento, a meno che quest'ultimo non rappresenti l'esatto momento nel quale qualche anima in lista d'attesa trovi una sua collocazione, magari del tutto casuale, in  un corpo destinato a venire alla luce.
Già la casualità biologica insinua un senso di precarietà nell'esistenza, senza che ci si metta anche l'anima a peggiorare la sensazione di essere un elemento qualsiasi tra milioni di miliardi di possibilità, un insignificante granello di sabbia nel caos delle occasioni.
Il corpo non ha un io senza la consapevolezza di esistere, senza ciò che per comodità ho chiamato anima, perciò se alla nascita manca questa coscienza, ma c'è solo percezione, quella che è nata a gennaio mentre nevicava, con gli occhi aperti, dopo due giorni di sofferenza di una giovane donna bellissima, non sono io, ma un corpo biologico nel quale solo in seguito un'anima vagante si è immersa, come si prende un treno per essere trasportati.
È per questo, forse, che ricordo benissimo quando ho cominciato ad essere io e nulla di ciò che è accaduto prima.
Tuttavia si attribuiscono alle creature appena nate e addirittura agli embrioni, elaborazioni di informazioni, non del mero corpo, ma di qualcosa d'altro, tanto che vengono sottolineati i condizionamenti, come marchi a fuoco, che derivano dal periodo precedente alla nascita.
Certo, il cervello: ma è forse credibile ritenere che un organo, per quanto specializzato e organizzato, possa elaborare se stesso?
Neppure col modello cibernetico si può risolvere il paradosso: le macchine funzionano perché c'è chi ha fornito loro il sistema per trattare le informazioni, qualcosa o qualcuno all'esterno che ne ha ideato il progetto e condotto la realizzazione.
Se così fosse esisterebbe un mio creatore, come di chiunque altro, ed io sarei frutto della sua immaginazione in tutti i particolari, in ogni attimo della mia vita, perciò non esiterei come reale ma come proiezione anche ora, mentre la mente che mi ha pensata e mi pensa mi sta immaginando mentre scrivo e la penso, come in un gioco di specchi.
Se smettesse di immaginarmi io non esisterei più, perciò essa pensa di farmi pensare che mi convenga comportarmi in modo da attirare continuamente la sua attenzione per non essere dimenticata e scomparire.
Così come immagina me, concepisce lo spazio e il tempo in cui mi muovo, gli altri individui immaginati che incontro in occasioni ideate, le reazioni di ciascuno, le interazioni, i cambiamenti che ogni contatto produce.
Un'immaginazione sfrenata, che talvolta chiamiamo Dio, che sta al principio di tutto, tale da darci l'illusione di realtà di vite imprevedibili condotte nella distorsione di credere che esistano regole, sostanze, verità, ordini certi.
L'immaginazione è l'inizio, il principio primo, immagina anche se stessa e di essa noi siamo i prodotti, perfettamente immaginanti a nostra volta, come dettagli di una spirale di frattali.
Io immagino di essere nata, a gennaio, con gli occhi spalancati e di aver gridato.
Qualsiasi affermazione che farò a questo proposito, come quelle scritte finora, sarà assolutamente vera e totalmente falsa, come lo sono tutte quelle di ogni essere che si ritenga vivente ed affermi qualcosa di sé o del mondo.
Vera o falsa a seconda che l'immaginazione, che si e ci crea, immagini che lo siano o meno.
Comunque sia andata sono nata, però non lo ricordo.
Ora sono qui, in una situazione sulla cui veridicità non mi sbilancio, in grado di definire solidi e liquidi, di distinguere suoni, di vedere oggetti e colori, di toccare, di mangiare, di sentire disgusto o piacere, di pensare e scrivere, di supporre di esistere all'interno di una rete di significati che mi rassicura credere condivisi pur nella certezza che non lo siano affatto, dal momento che le mie percezioni possono essere interpretate in modo diverso da quelle di ciascun altro essere vivente col quale ho in comune unicamente le convenzioni che le nominano.
Quando ero bambina non mi sono mai accorta di vedere doppio e sfumato: era la mia esperienza e la vivevo con la serena accettazione di chi la ritiene esatta, finché qualcuno non ha ritenuto doveroso adeguare la mia vista, interpretata come difettosa, a quella considerata corretta sul piano fisiologico senza che sia stato possibile - e non lo sarebbe neppure ora, né lo sarà mai- verificarne la corrispondenza con le diverse realtà mentali, e ancora di più con quelle spirituali, dei diversi io assunti a riferimento.
Sono state date ai miei occhi identiche capacità di percezione visiva di ciò che avrei comunque interpretato in modo originale, e soprattutto non confrontabile con le interpretazioni altrettanto originali delle percezioni di chiunque altro.
Nelle infinite possibilità di credere ciò che si vuole senza che nessuno possa confutare le nostre affermazioni con la presunzione di avere ragione, io dichiaro di essere nata e di non volerlo ricordare, tale fu lo sgomento che mi fece gridare.
Dedico il mio grido a tutte le occasioni in cui mi sono detta “lascia perdere” ed ho messo lo spirito sotto vuoto, aspirandogli l’aria.
Circostanziamo pure giorno, mese, anno e modo della mia nascita, ma a me e a me sola spetta il diritto di affermare ciò che il mio grido rappresentava nel momento in cui ho accolto la vita, perché conosco, molto bene, cosa significa avere l’anima immersa nella formalina, priva delle parole che le sono state sottratte.
Allora io non le possedevo, ma il terrore e il dolore erano identici, muti per naturale incompletezza come per scelta.
Tra tutti i pensieri che possono attraversare la mente in certi attimi di autentica angoscia così determinanti, quello al quale non mi sono mai rassegnata, neppure mentre il cordone ombelicale ancora pulsava, è stato quello che mi attendesse un percorso di immensa solitudine, una prospettiva di anni lunghi come millenni che mi avrebbero consumata nel vano desiderio di trovare la certezza di un accordo sui termini della comunicazione che avrei tentato con altri, i quali avrebbero tentato, con identico scarso successo, di fare la stessa cosa con me.
Si grida, perché tutto il benessere che avvolgeva nella culla ovattata del rifugio amniotico, la sensazione di essere fusi con un altro essere e di nutrirsi alla medesima fonte, viene inesorabilmente interrotta e perduta per sempre.
La donna, se diventa madre, ha qualche speranza di ripetere un’esperienza simile durante la gravidanza, benché il ruolo di involucro favorisca piuttosto un senso di onnipotenza che rinvigorisce la solitudine e dilania in modo più consapevole al momento del parto, reiterando la prima amputazione nella madre e originandone un’altra nel nuovo nato, che accoglie la propria vita con lo stesso antico sgomento.
Per un puro atto d’egoismo, originato dal desiderio di provare ancora perfetta fusione, si reca il dolore dal quale non si è mai guarite all’essere che si dice di amare maggiormente.
Per l’uomo questa solitudine disperata trova illusorio rifugio principalmente nel sesso, o nella dedizione totale a un progetto di vita di cui si nutrirà e nel quale si avvilupperà come nella vitale membrana materna.
Solitudine talvolta splendida, ma incurabile, alla quale ci si può abbandonare con atto di suprema dedizione, amando la vita, o contro la quale si può combattere una coraggiosa quanto inutile guerra, fino alla resa o fino alla morte, amando ugualmente la vita.
Qualunque soluzione alternativa che miri a mantenere uno stato di tiepida accettazione e moderato malessere, non ha nulla a che fare con lo spirito in grado di dare senso alla propria storia, che esige di essere estrema, o altrimenti diviene inconsistente.
Quel grido, di sgomento, di terrore, di dolore e di rifiuto, da tutti considerato il primo entusiasmante respiro, è origine anche del primo insopportabile fraintendimento, tutti pronti come siamo a proiettare le verità, che sono solo nostre e che ci contengono, su altri che ne verranno sopraffatti, tanto più in modo insanabile quanto meno avranno, come accade a un neonato, gli strumenti per ribattere.
Si nasce ed il nostro primo atto viene frainteso, salutato come segnale di vita, senza accorgersi che si tratta di un pianto lancinante di fronte alla morte delle nostre primarie certezze.
Affrontando così vulnerabile l’incerto, con l’unico mezzo di cui disponevo - il grido- ho affermato di esistere.
Era gennaio, nevicava.

3- La rinascita
Eccoli, sono tornati.
Li attendevo e finalmente li vedo di nuovo. Sono veli sottili, così leggeri ed impalpabili da poterli solo intuire attraverso l'aria perfettamente tersa. Sono silenziose pennellate d'acquerello, tenui movimenti di luci opache e radenti.
Godono del favore dei cieli autunnali, al mattino, dopo la pioggia, o dei bagliori di primavere precoci incastonati nel cuore dell'inverno.
Li precede un presentimento vago che per giorni mi lascia immobile, paralizzata da pretesti al condizionale, incapace di formulare inutili definizioni.
Tutta la pelle viene carezzata da un'aura quasi impercettibile, che tuttavia si insinua in un corso morbido di palpiti interni.
Non posso concentrarmi su nulla, solo restare in sensibile attesa del visionario abbandono del quale avverto l'imminente onda.
A volte li chiamo, smanio nel desiderio di esserne rapita nascondendomi in uno speranzoso dormiveglia, sorrido a me stessa, mi scindo dal corpo e mi guardo, quasi con rancore nel sentirmi limitata, quasi con amore nell'avvertirmi eletta e predestinata ad assistere al prodigio di questo grande, inafferrabile respiro.
Quando giungono posso vederli in ogni elemento: nell'acqua che scorre, nelle volute di fumo, nelle venature del legno, negli sfioramenti con la punta delle dita di superfici che l'abitudine ha sottratto alla mia coscienza.
Ciò che mi circonda diventa nuovo e inaspettato, ne colgo i dettagli, ne subisco il fascino. Luci ed ombre, piccole curve, morbide geometrie, inclinazioni, spessori, vicinanze di oggetti acquistano significati inattesi, svincolati dalle logiche secondo le quali sono stati creati e disposti, assegnando invece al caso il ruolo di protagonista.
Allora vedo i fili che si intrecciano ad attribuire sostanza a ciò che fino a poco prima sembrava costruita apparenza, si sgretolano vincoli e certezze, a nulla vale cercare nella razionalità alibi per rifiutare questa realtà che si dice distorta pur essendo la sola reale.
Un tempo non era così.
Temevo la venuta di quelli che sentivo oscuri fantasmi.
Avevo bisogno di angolazioni precise e di archivi ordinati. Non c'erano aure, aliti di brezza, morbide danze, ma fiammate, squarci di luce violenta, contraddizioni che si agitavano in un frenetico sabba del quale sapevo d'essere la vittima, povero essere di viscere scure da strappare come sacrificio a divinità spietate.
Venivo frustata, graffiata, lapidata con pietre pesanti se solo osavo alzare lo sguardo a rivendicare le mie piccole, soggettive, fragili verità.
Non c'era attesa, ma terrore; non desideravo abbandono, ma invocavo di non perdere la forza, banalmente umana, che mi sosteneva a non cedere.
Venivo divorata da un pianto interiore di cui avvertivo i morsi: lo sentivo masticare brandelli di me e scavare, sbranandomi, gallerie che restavano vuote e risuonavano cupe di echi spaventosi.
Mi sentivo nuda e ferita, battuta da piogge pungenti come spine, conficcata in terre desolate nelle quali non volevo affondare. C'erano radici prive di linfa e rami secchi da cui la vita defluiva senza possibilità di arrestarla.
Io c'ero, subivo e allo stesso tempo guardavo impotente ciò che mi stavano facendo gli spettri delle mie negazioni.
E maschere, sempre: di argilla, di legno, di metallo per le battaglie più dure, si frantumavano, si sfasciavano in schegge, vi si incidevano profonde fratture, ma ce n'erano altre pronte per non mostrare mai un volto che io stessa non potevo più identificare.
Stavo bene, ero perfetta sul palcoscenico del grande teatro, bastava non guardare l'angoscia negli occhi, la curiosità disperata che vi era riflessa, la muta richiesta di aiuto che baluginava ad ogni incontro che speravo speciale.
Stavo bene, indossavo con stile i costumi di scena, attrice di consumato talento, saggia e misurata. Le piccole sbavature erano intese come vezzi di interpretazione ma già, per taluni, parevano inaccettabili deragliamenti.
Ma io odiavo i miei ruoli, mi corrodevano come ruggine.
Le tempeste e le lunghe notti di gelo boreale le affrontavo sola e coperta di stracci, violata nella carne viva, procedendo sulle braci, nel fango, nei guadi melmosi, in aride steppe.
Quale aurora mi abbia spinta ad uscirne non lo so.
Ho camminato a lungo sul ciglio oltre il quale c'è l'abisso, la consegna irreversibile all'inferno, la perdita, il dolore distillato e sublimato. 
Non ho fatto il passo fatale, ho solo provato la vertigine della caduta, ho resistito all'attrazione magnetica del vuoto.
Poi ho visto riflessi di luce, compreso i colori, desiderato volare in alto, molto in alto, così lontana da non sentire altro che rarefatto silenzio.
E' così che sono tornata viva e diventata pazza.

Tempo fa ho pubblicato su questo blog solo l'ultima parte di questo scritto, che nella sua versione completa è piuttosto vecchio. 
Risale al periodo in cui, per uscire dalla depressione seguita alla morte di mia sorella, mi sono sottoposta ad alcune sedute - otto, per la precisione- di Rebirthing, una tecnica talvolta usata anche in analisi, psicologicamente durissima. In pratica, attraverso l'iperventilazione, si entra in uno stato di rallentamento delle funzioni corporee, ma di sblocco di nodi emotivi, tanto da poter rivivere il momento della nascita (per maggiori informazioni http://www.ilrebirthing.it/rebirthing.html). 
Per quanto venga presentata come una tecnica quasi piacevole, si tratta invece di un'esperienza terrificante, che lascia sfiniti per giorni, porta a fare sogni stranissimi, ma aiuta a sciogliere nodi profondi. 
Magari non è vero, ma a me ha fatto questo effetto, tant'è che sono guarita dal male che mi affliggeva e ne sono uscita pure più resiliente. 
Questi scritti sono sogni, vaneggiamenti e sensazioni frutto del Rebirthing.
Accade però che alcune persone, tra le quali mi includo, ci mettono anni a socializzare l'aver attraversato certi stati d'animo, come se ne avessero vergogna.
Beh, a me è passata.






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