lunedì 4 gennaio 2016

I giorni maledetti

Ieri mi è capitato di leggere una frase del Macbeth di Shakespeare che mi ha fatto pensare molto: “Date al dolore la parola; il dolore che non parla, sussurra al cuore oppresso e gli dice di spezzarsi”.
Non è nella mia natura parlare pubblicamente del dolore, né del mio né di altri, ne ho pudore, ne ho un tale rispetto che non voglio scivolare nella retorica o nell'autocommiserazione, non voglio adornarlo con orpelli che non gli appartengono, desidero solo guardarlo così com'è, nudo e crudele e lasciare che ancora una volta, per quarantotto ore all'anno, mi scortichi.
Questi sono i giorni della muta, le date maledette che devo superare all'inizio dell'anno per poi continuare a vivere guardando avanti.
Il 6 gennaio di ventisei anni fa è nato Pietro, il mio secondo figlio.
Il 6 gennaio di diciotto anni fa è morta Caterina, mia sorella.
Il 7 gennaio è morto Pietro, a poco più di trenta ore di vita, prematura e intubata.
L'anno scorso, il 7 gennaio, è morto mio padre.
Sono i giorni in cui è avvenuta e si è ripetuta la cesura tra un prima e un dopo, la stenosi dove ristagna la mia inguaribile malinconia.
Ogni anno mi riprometto di non pensarci, ma inevitabilmente inciampo nel primo “se”, quello che dischiude una vita diversa se le cose fossero andate diversamente.
Non immagino una vita migliore, solo diversa, dalla quale io sarei uscita diversa e tutto avrebbe seguito un altro corso.
Anzi, riguardo a Pietro penso con terrore che se fosse vissuto sarebbe stato infelice, oppure per miracolo sarebbe stato bello, forte e sano ma non ci sarebbe stato Eugenio, il mio terzo figlio, e pensare a una vita senza di lui è ancora più insopportabile, così mi sento pure in colpa e cerco di risolvere il problema pensando che li vorrei entrambi, anche se è un'assurdità persino nel gioco assurdo dei “se”.
E da quel primo “se” le mie vite ipotetiche del terzo tipo, che non sono state e non saranno mai, cominciano ad affollarsi nei miei pensieri, sempre nuove e diverse, e al dolore devo sommare la nostalgia per quelle tavolate alle quali non si è mai seduta mia sorella, per quei nipoti che non hanno riempito di allegria la vecchiaia scontrosa e ostile di mio padre, per case nelle quali non ho mai vissuto e per tutti gli altri, non meno importati, che mancano all'appello e che a quelle tavolate, in quelle case, in mezzo a quelle risate di bambini, sono seduti accanto a me. Perché una volta che ho iniziato il gioco a massacrarmi, si apre tutto il grande baule della sofferenza
E mi mancano gli sguardi di quel figlio che non ho visto crescere, le chiacchiere con quella sorella che non ha fatto in tempo a diventare una donna, i momenti di tenerezza con quel padre che mi ha sempre fatto soprattutto rabbia e paura, mi manca lo splendore della mamma che non ha potuto invecchiare e la levità del padre dei miei figli che non è qui vicino a me a condividere la loro vita adulta.
Durante le date maledette più che confrontarmi con la morte – che è già difficile farlo volta per volta, con una morte sola- diventa un confronto con la vita, con le vite.
E non è certo la finitezza nel tempo che spaventa e addolora, ma quella nello spazio, la consapevolezza che non abbiamo alcun "se" da sperimentare, né altre vite possibili se non la nostra. 
É il computo sterile di circostanze nelle quali non ci siamo mai trovati.
E finisce che non so se aggrapparmi alla vita che ho, che è l'unica vera ed è tanto ricca di bellezza, o frustare il cielo con la coda come un leone prigioniero per quelle che non ho avuto, pur con le loro inevitabili miserie, e sono smarrita, sopraffatta dall'impotenza, da un senso di ingiustizia così totale e profondo, che al dolore si aggiunge l'indignazione e piango, piango per ore, piango a caso, improvvisamente, più mi dico di smettere e più piango finché non sono esausta e passa.
E così il cuore non si spezza e riesco persino a fingere indifferenza.
Ma sì, dai, la vita è questa, nessun'altra, non c'è possibilità di scelta di fronte alla morte, se non quella di come reagire, non devo guardare al passato, come sono brava, come sono forte.
Come sono stanca, invece, della memoria e dell'immaginazione, com'è ingiusto che le mie più grandi risorse nei giorni maledetti diventino un fardello e quanto è vulnerabile questo cuore oppresso che devo proteggere.
Questa volta parlarne era una necessità, piangere non sarebbe bastato a far sgretolare tutta la montagna del dolore e a ridurla in sabbia per farla fluire insieme ai giorni consueti.
E non voglio abbracci o consolazione, ma solo qualcuno a cui dire, che ascolti, che legga le parole che faccio così fatica a esprimere, solo perché smettano di sussurrare e mi liberino, almeno un po'.