lunedì 21 luglio 2014

In questo ultimo giorno

Domani accompagnerò Menta nel suo ultimo viaggio.
Abbiamo vissuto insieme sedici anni, per questo voglio scriverne oggi, quando è ancora viva, distesa accanto a me, viva benché in affanno e con quella cosa tremenda che le deforma il ventre e me la sta portando via, giorno dopo giorno, da qualche mese.
Voglio scriverne oggi, perché è la sua vita che voglio celebrare e domani non potrò più, domani desidererò solo silenzio per poter piangere in pace la sua pace.
Questo ultimo giorno che sembra quasi inutile, durante il quale vorrei fare tutto ciò che le piace, regalarle tutta la felicità del mondo, ma non posso, lei non ce la fa più, non sa più che fare di se stessa.
Come sempre mi chiedo se non ho aspettato troppo, oltre quella soglia del dolore che lei non sa descrivere e io non so vedere, perché non voglio vederlo, non voglio, non voglio.
Ma devo.
Avevo giurato che non l’avrei fatta soffrire neppure un minuto più del necessario, e ora mi bastonerei, per la mia piccolezza, il mio egoismo, questo assurdo e solo umano attaccamento a una vita che non è vita e non è neanche più quella a cui sono attaccata.
No, non è così che voglio parlare di lei, non è così che voglio vivere insieme a lei il suo ultimo giorno.




Era minuscola la prima volta che la vidi, avrà avuto venti giorni.
Figlia del cane di un’amica, la presi in braccio, mi stesi sul divano e lei si addormentò sul mio cuore, prendendone possesso, come solo un cane sa fare.
Un mese dopo la portai a casa, dove c’erano un giovane gatto, due bambini e una donna, neanche quarantenne, molto confusa, che camminava sul confine della depressione: io.
Avevo poco tempo e poca pazienza per un cucciolo, ma mi ammalai e mi si incrinò la schiena, un giorno che sfogai la rabbia per la morte di mia sorella picchiando forte sul materasso con un pesante bastone.
Nei mesi di convalescenza, Menta mi accompagnava nelle lunghe passeggiate nei campi, baldanzosa e velocissima, sempre con il naso a terra fino a conoscere la campagna palmo a palmo. 
Io camminavo lentamente, mi fermavo, meditavo guardando la luce di febbraio attraverso un grosso cristallo di fluorite, lei inseguiva strade olfattive, puntino bianco sulla terra che si preparava al risveglio.
Avevamo il nostro tragitto: percorrevamo la cavedagna dietro casa attraverso i terreni seminati, arrivavamo fino alla grande casa colonica del contadino, poi da lì viravamo verso il macero, poi lungo il frutteto, infine ci congiungevamo di nuovo con la strada che ci riportava a casa.
Venne primavera molto presto, quell’anno, il clima era già tiepido e ogni giorno vedevo le gemme che spuntavano sui rami degli alberi, ritornando un po’ alla volta alla vita anch’io.
E lei era accanto a me, correva, spariva ad annusare tane in qualche fosso, poi con l’avanzare della stagione veniva nascosta dalle piante, sempre più alte e più verdi, finché non si vedeva niente altro se non il pennacchio della sua coda che sventolava tra le foglie, o il muso peloso comparire tra le spighe, o un volo di fagiani, o una corsa di leprotti, che preannunciavano uno dei suoi folli e infruttuosi inseguimenti.
Ogni tanto veniva a controllare che non mi fossi persa -ma io ero persa, mi stavo ritrovando- poi scappava di nuovo a correre dietro alla sua infanzia di cane.
Sorrideva sempre Menta, tornava ansimando con la lingua penzoloni e la luce che brillava nei suoi occhi tondi, su quel muso da cane di pezza.
Io non sono mai stata sola, nel più terribile momento di solitudine della mia vita, perché c’era sempre Menta con me.
Padrona del giardino e padrona dei campi, a volte se ne andava in giro da sola e rientrava dopo ore, con il pelo lungo attorcigliato a rametti, fili d’erba, fiori.
Per qualche anno siamo state serene: lei con la sua libertà, io con il mio equilibrio precario. 
La casa si riempì di gatti, e di cani di passaggio, ma Menta è sempre stata buona e paziente, andava d’accordo con tutti.
Poi di nuovo un altro colpo.
Per un paio d’anni mi dimenticai di lei, presa com’ero da problemi che mi parevano più grandi di me. Certo, la portavo con me in vacanza, le davo ciò che era necessario per sopravvivere, ma attenzioni non ne avevo e ancora non posso perdonarmelo. Non ce la facevo.
Quando decidemmo di cambiare casa, di lasciare la campagna per la città, iniziò una nuova vita: la mia quarta, quinta...la sua terza.
Il periodo del trasloco fu faticosissimo: eravamo ospiti, la casa nuova da ristrutturare, i ragazzi impegnati a studiare durante l’estate, io tutto il giorno in cantiere con i muratori, perché c’erano pochi soldi, c’era poco tempo, dovevo rimboccarmi le maniche.
Eppure fu l’inizio della parte migliore della nostra vita insieme.
Menta ed io eravamo entrambe mature, ci conoscevamo bene, lei continuava a fidarsi di me ciecamente anche se per due anni l’avevo tradita, io le ero immensamente grata perché non mi aveva mai rimproverata e mi stava vicina nei pochi momenti di pace di quelle giornate calde e calcinose.
Uscivamo al mattino prestissimo, non erano neanche le sette, io tenevo le cuffie nelle orecchie e ascoltavo sempre, ogni giorno, From the Beginning, lasciando che l’arpeggio della chitarra di Lake, la sua voce di velluto e quella chiusura di moog di Emerson che ogni volta mi dava i brividi, ci portassero verso i Giardini Margherita, quando ancora la giornata era rosata, l’odore dell’erba pungente di umidità notturna e l’intero mondo solo nostro. 
Menta, io, e From the Beginning in loop.
Restavamo al parco più di un’ora, un po’ alla volta avevamo anche trovato degli amici altrettanto mattinieri. 
Queste passeggiate erano indispensabili per affrontare la giornata, non ce l’avrei mai fatta se Menta non mi avesse portata fuori ogni giorno così presto.
Alla sera, di nuovo: dopo ore di cantiere, polvere e fatica, arrivavo a casa, mi facevo una doccia e di nuovo fuori, ancora un’ora e più, ancora con il mio cane.
Da allora non mi sono mai più dimenticata di lei, non l’ho mai più lasciata sola. 
Ogni volta che la guardo provo solo un’infinita gratitudine e un amore così tenero, che è raro provarlo anche per un essere umano.
Anche in questi ultimi anni, da quando è vecchia, da quando è incontinente, sorda, quasi cieca, spesso così in affanno da doverla prendere in braccio per salire le scale, da quando è così poco presente, ma bisognosa di cure, Menta resta una delle creature che mi sono più care al mondo.
In questi giorni, alla sera soprattutto, me la prendo in braccio e prego perché muoia così, stesa su di me, avvolta nel mio odore, ma lei non ce la fa.
Io l’ho già lasciata andare, lo so che non piangerò la sua morte, ma piangerò rimpiangendo la sua vita, la nostra vita insieme, che non se ne va con lei com’è ora, se n’è già andata, un po’ alla volta, in questi sedici anni.

Ci sono momenti in cui si muore di più.
Tutti stiamo morendo, giorno dopo giorno, ma ci sono momenti in cui la morte non è più l’astratta prospettiva dell’inevitabile, bensì l’avvicinarsi di una realtà.
In questi ultimi mesi io l’ho visto attraverso Menta, ancora mi ha insegnato qualcosa, ancora ha arricchito la mia vita.
Lei stava morendo di più di me, e pure questo era inevitabile. 
Non posso fermarlo, non posso impedirlo, non posso riavere indietro - io, ora, come sono adesso- lei com’era, com’è stata, lei com’è ora ma senza dolore e senza affanno.
Devo solo riuscire ad accettare questo distacco dolorosissimo, decidere ancora una volta per la sua vita, lasciare che l’ennesima ferita cicatrizzi, con il suo carico di perché.
Io sono buddista e credo che la vita sia un ciclo di due fasi - vita e morte- che si alternano in un continuo lasciarsi e ritrovarsi.
Ci ritroveremo, Menta e io, non so quando, non so come, non saremo certamente più Menta e io eppure lo saremo, e succederà, voglio crederlo con tutta me stessa.
Però ci penserò domani, perché ora, in questo ultimo giorno, voglio abbracciarla e tenerla stretta, io come sono, lei com’è.
Menta e io, in questo ultimo giorno.