domenica 18 maggio 2014

Nullus amicus magis liber quam liber

Tutto è (ri)cominciato con la morte di Gabriel García Márquez, a metà aprile.
La notizia mi ha scombussolata parecchio, ho anche pianto tanto, come se se ne fosse andato un vecchio amico. I libri di Gabo mi hanno accompagnata per un lungo tratto della mia vita, da quella prima volta, intorno ai diciassette anni, che lessi Cent’anni di solitudine. 
Così, per rendergli omaggio, ho preso in mano uno dei suoi libri che possedevo ma che non avevo ancora letto - Memorie delle mie puttane tristi, che tra l’altro non m’è neppure piaciuto granché -  e mi sono messa a leggere.
Fin qui non ci sarebbe nulla di strano da rilevare, se non che durante il periodo della scuola riesco a leggere ben poco: durante i primi mesi perché devo prendere il ritmo - con la fatica da vecchio diesel sovietico che faccio - a metà anno perché sono troppo impegnata e in questi ultimi scampoli di anno scolastico perché sono troppo stanca, di una stanchezza intima e profonda che si traduce in una condizione costante assai vicina alla narcolessia.
Caso ha voluto, tuttavia, che per una serie di circostanze di natura medica, proprio in questo periodo abbia iniziato a praticare un regime alimentare piuttosto severo, che nei primi tempi si è tradotto in una certa inclinazione all’insonnia.
Insomma, insondabili fili cosmici hanno intrecciato la loro rete, nella quale sono stata catturata: due giorni e il libro era finito.
Nel frattempo avevo iniziato una conversazione con un amico a proposito dei grandi scrittori sudamericani, e poiché lui mi ha citato Mario Vargas Llosa, maestro peruviano del quale non avevo letto nulla, pur possedendo nella mia biblioteca ben tre suoi libri, ne ho agguantato uno e me lo sono polverizzato in tre giorni. Tra l’alto era pure difficile.
Faccio un inciso: tre righe più su ho scritto “...non avevo letto nulla” e vorrei sottolineare come questa confessione, che un tempo avrei ritenuto infamante, ora mi costi poca fatica. Sono molti i libri che non ho letto, molti sono grandi classici oppure opere di autori considerati “fondamentali” e una volta non avrei mai avuto il coraggio di ammetterlo, per via di un certo bisogno di dimostrare sempre qualcosa di me, o di nascondere i miei limiti, attraverso un uso alternato, accorto e abbastanza aggraziato di omissioni e autoironia. Del resto, in linea di massima non provo alcun feeling letterario con l’Ottocento, quindi è evidente che mi sia persa un bel po’ di cose, non tutte, ma comunque un bel po’. Fine dell’inciso.
Una volta terminato il romanzo di Vargas Llosa, sono andata a spulciare il reparto hispanohablante della mia biblioteca e ne ho estratto la trilogia di Maqroll di Álvaro Mutis, tre romanzi brevi ma intensi dello scrittore colombiano, dei quali mi è piaciuto il primo, il secondo m’ha fatto venire il nervoso e il terzo mi ha lasciata con l’amaro in bocca, nonostante la bellissima scrittura e il primo sintomo di compulsione che mi si è manifestato all’improvviso nel bel mezzo de La neve dell’ammiraglio.
Sì, perché io con i libri ho lo stesso rapporto che ha un alcolista con la sua droga: o non leggo proprio, in preda a una desolata sobrietà, oppure non sopporto di prefigurarmi la fine di un libro senza averne già pronto un altro, o molti altri dello stesso autore nel caso mi innamorassi di lui, o di lei, lungo la strada. Il mio bicchiere deve essere sempre pieno, così mentre sono alle prese con un libro ne preparo altri tre, dello stesso autore, o di autori limitrofi, o che io ritengo collegati da chissà quali percorsi, e se non li ho in casa, li compero, in una pericolosa progressione esponenziale.
Questa esplosione di entusiasmo verso i libri, che mi ha investita e travolta con un’ondata di ritrovata gioia, mi ha riportato alla mente anche ricordi bellissimi, di quelli in grado di rinfrescare la vita, recuperando e restituendole il senso del privilegio per averla potuta vivere così. 
Mi sono ricordata soprattutto le lunghe giornate in collina, durante l’estate, stesa su un prato con mio marito, i nostri cani, il nostro gatto e un libro a testa, immersi ciascuno nel suo mondo, eppure così insieme; mi sono ricordata che un giorno si ruppe un termosifone, si allagò la casa e molti libri andarono perduti, macerati dai flutti bollenti, ma molti di quelli che riuscimmo a salvare ci sono ancora, sono qui, riconoscibili da una linea irregolare che separa la parte inferiore, ondulata e ingiallita, da quella superiore, intatta; mi sono ricordata quando mi tuffai ne I Buddenbrook di Mann e per tre giorni non gli parlai, non riuscii a dormire se non per le poche ore indispensabili, mangiai con il libro incollato al naso, mentre lui lamentava di essermi diventato momentaneamente del tutto indifferente. E molto altro, mi sono ricordata: la terrazza della casa del mare dove passavo le ore a leggere mentre tutti facevano la siesta nella calura di agosto, le notti in bianco con gli occhi ormai appannati, le montagne di gialli iniziati al mattino e finiti la sera -o viceversa-, l’innamoramento che mi prendeva per certi personaggi, la rabbia, a volte un vero e proprio odio, verso altri, le lacrime, quel senso di perdita che si prova quando finisce un libro troppo presto e noi ne vorremmo ancora.
Mentre ricordavo, e leggevo, e mettevo da parte i libri in lista d’attesa e ne comperavo altri, mi è venuta anche voglia di rileggere libri che non ricordo più, attività che ho praticato assai di rado, poiché l’ho considerata a lungo - erroneamente - una perdita di tempo.
Siccome sono una che non può esimersi dall’effettuare tentativi, spesso assai goffi, di racchiudere la mutevole e imprevedibile realtà in un sistema controllabile, matematico, statistico o quant’altro, mi sono sempre detta che se mantenessi una media di una quarantina di libri all’anno, se il cielo mi assicurasse in salute e lucida per altri venticinque anni e se Santa Lucia mi conservasse la vista, ora come ora avrei davanti a me non più di un migliaio di libri, senza calcolare che esistono libri veloci e libri lenti - non necessariamente lunghi, i libri hanno un loro ritmo - esistono momenti in cui non si riesce a leggere, periodi di caduta e sfilacciamento della passione e quindi il mio calcolo è comunque soggetto ad ogni sorta di bizzarria del destino, tanto da risultare certamente ottimistico.
In ogni caso, anche se davvero potessi, di qui all’eternità, leggere mille libri, dovrei scegliere bene, perciò rileggere libri che ho già letto potrebbe sembrare una perdita di tempo, ma siccome trent’anni, vent’anni, anche solo cinque anni fa ero un’altra persona, potrei leggere i dieci libri fondamentali della mia vita per cento volte a distanza di un po’ di tempo e ritrovarli come nuovi.
Un’altra faccenda bella di cui mi sono accorta in questo mese, vivendo sempre con un libro in mano (a oggi ne ho letti otto e sono a metà del nono), è che la vicenda narrata in un romanzo mi affascina meno della scrittura, verso la quale sono diventata estremamente sensibile ed esigente. Auster, per fare un esempio, me lo sono bruciato al primo romanzo perché usa troppo i puntini di sospensione: sei, sette volte in trecentocinquanta pagine sono decisamente troppe.



Il rovescio della medaglia, quello doloroso, è che a me piace la Letteratura, quella con la maiuscola, mi confronto sempre con grandi autori, maestri della parola dotati di un respiro che fa sobbalzare il cuore. 
Leggere è come andare in bicicletta, non ci si dimentica mai come si fa, e anche se s’è fatta una pausa, basta pochissimo per ritornare sicuri come prima, ancora più di prima, e riconoscere tra le righe la meraviglia di una serie di parole inanellate con il ritmo, l’eleganza e l’originalità che è propria dei grandi scrittori, quelli che, per fortuna e purtroppo, sono i miei modelli e rispetto ai quali non mi sentirò mai all’altezza di scrivere nulla di più di queste sciocchezze.