venerdì 3 gennaio 2014

Le favolose virtù curative del brodino

Non conosco nessuno -a meno che non si tratti di persone che vivono in paesi dal clima equatoriale, che però non conosco - che alla parola “brodino” non si lascino sfuggire il presentimento di un intimo piacere attraverso un guizzo di luce negli occhi.
Che si tratti di reminiscenze bambine, o che sia il rinnovato sollievo di un primo pasto in ospedale dopo tre giorni di flebo, l’immagine del brodino rievoca in tutti, e in ciascuno, una sensazione di fumante benessere che scalda il cuore.
Quella superficie dorata, appena increspata da piccole onde oleose e rotonde, così apparentemente anonima, cela nei suoi abissi il potenziale di guarire da ogni male, del corpo e dell’anima.
Se la medicina tradizionale lo sconsiglia in alcuni casi, specie nei disturbi gastrici, la saggezza popolare al contrario lo considera il primo e più efficace rimedio per qualsiasi malanno, dai geloni alla melancolia.
Il brodino è l’esempio più mirabile di un approccio olistico alla persona che ne beneficia, tocca corde profonde, affonda la sua natura nei ricordi più lontani della vita presente e, chissà, anche di quelle passate.
Il brodino deve essere bollente, deve scaldare le membra nelle buie giornate invernali e accenderle con la sua luce fluida, delicata e sapida, avvolgerle come un abbraccio, scendere lentamente e propagare il suo ineffabile calore, riportare vita dove il freddo sembra averla cristallizzata e resa immobile.
Che dire poi di quei momenti in cui il mondo ci sembra alieno e ci sentiamo distanti da tutto, persino da noi stessi? Quella incurabile solitudine che prende a tratti, senza spiegazione, che si ostina a non abbandonarci, persi in un deserto, naufraghi nel nulla, si cura con un brodino, un bel brodino il cui fumo profumato dissolve i cattivi pensieri, rendendoli eterei, volatili, fuggevoli, come una nuvola che si sfalda nel cielo per lasciare il posto a quel primo, quasi miracoloso, raggio di sole.
Certo, gli antibiotici hanno fatto la loro parte per debellare le malattie, lo scandagliare l’inconscio ha contribuito a rendere a molti l’equilibrio perduto, ma prima di tutto ciò, se l’umanità ha potuto sopravvivere alle epidemie, alle carestie, alle eresie, alla morte e alla rinascita di Dio, è stato grazie al brodino.
Il brodino già produce i suoi effetti benefici dal momento in cui si prepara la pentola con le carni accuratamente scelte, il manzo da bollito, un pezzo di doppione, un ossobuco, o un bell’osso con la polpa, un quarto di gallina -o di cappone se si è in atmosfera natalizia- una bella carota grossa, così da restare intera ed essere mangiata a parte, una costa di sedano, una cipolla, un pezzo di crosta di parmigiano. 
Quando comincia a prendere il colore biondo e a spandere nell’aria il suo inconfondibile aroma, prende forma anche l’idea del piacere che ne verrà, e sia che lo si nobiliti con i  succulenti tortellini, con gli alteri passatelli, o con la deliziosa zuppa imperiale, sia che si pensi di svilirlo con una dimessa pastina, il brodino non paventa né di essere messo in secondo piano, né di venire umiliato, perché la sua dignità, il suo prodigioso potere curativo, la sua natura salvifica, non si lasciano intimorire da nulla.
Non ultimo, il brodino svolge anche una insostituibile funzione sociale, è una cartina tornasole nei rapporti umani: si sceglie infatti, se possibile per passarci la vita, di avere accanto una persona che, in caso di bisogno, ci preparerebbe un brodino caldo. 
In caso contrario, nessun partner meriterebbe di essere preso in considerazione come tale, ma solo come momentanea avventura senza futuro.
Quindi, senza l’idea del brodino, non solo l’individuo sarebbe in balia della natura più crudele, ma non potrebbe riporre fiducia nel prossimo, resterebbe isolato e non esisterebbe alcuna famiglia.



L’essenza del brodino per me é il ricordo di quando da bambini, mio fratello e io, le malattie esantematiche ce le vaccinavamo da soli, riempiendoci di pustole pruriginose, con il febbrone, a letto intere giornate ad aspettare l’arrivo della nonna che pazientemente ci leggeva le fiabe e, verso il tardo pomeriggio, quando la febbre ci faceva battere i denti, richiamava all’ordine la mamma: “ Paola, è ora che i bambini prendano un brodino”. 
Era quasi la formula magica di uno sciamano, che unita al profumo della nonna, al suo tepore rassicurante, alla sua voce amica che leggeva, ci faceva immediatamente sentire meglio. Quando il peggio della malattia era passato e cominciava la noiosa quarantena, al brodino si facevano seguire le “polpette gustose”, poi chiamate solo “le gustose”, bollite nel latte e accompagnate dal purè.
Nella profondità dorata del brodino io vedo scorrere la storia di generazioni di nonne, mamme, bambini, focolari accesi, coperte lavorate all’uncinetto, manti di neve fuori dalla finestra e boschi con streghe che attirano i fanciulli in casette di cioccolato, casette nelle quali noi non saremmo finiti mai, perché l’odore del brodino ci faceva sentire protetti, al sicuro, curati e amati.

Se tutti ci illuminiamo, se diventiamo più romantici, non è solo perché ci ha risanati tante volte, ma piuttosto perché la vita appare molto più bella se la guardiamo riflessa nella luminosità preziosa della superficie di un brodino.


giovedì 2 gennaio 2014

Solo due righe per riprendere la mano

Non ho voglia di scrivere.
Ci ho anche provato, ma non mi riesce: non trovo le parole, tutto mi esce a fatica, tutto mi sembra poco interessante.
Ho provato a scrivere una lettera di Babbo Natale, un esercizio che ho fatto anche fare a qualche mia classe a scuola e l’idea poteva anche essere carina: una letterina del vecchio ciccione che si lamenta perché è un lavoratore a contratto, è costretto a vivere nella tundra -o nella taiga, che la differenza non l’ho mai capita, ma mi sa che la fanno i muschi e i licheni-  solo in compagnia di renne cagone e di folletti dispettosi.
Ci ho provato, ma i miei alunni, a suo tempo, hanno fatto molto di meglio.
Volevo anche scrivere una cosa sui tortellini, mi riprometto di farlo ogni giorno da due mesi a questa parte, ma nel frattempo ho tirato non meno di centocinquanta uova di sfoglia, di tortellini ne ho fatti circa trenta chili e ora ho la nausea perfino a parlarne.
Mi era venuto in mente anche di riversare su un foglio bianco i mille motivi per i quali detesto le feste e in questo periodo mi sento perfida, cinica e se mai coltivo tutto l’anno una buona quantità di speranze, queste svaniscono all’apparizione del primo festone, come se a me la cometa portasse in un vicolo cieco di disillusione, malinconia e senso di esilio, però ci sono motivi così profondi e dolorosi per tutto questo, che non sono pronta a parlarne, né seriamente -che mi faccio venire il nervoso da sola- né con la mano lieve, che è quella con la quale mi riesce meglio di scrivere, di solito.
Io poi ho una grossa difficoltà con la retorica, sia della gioia, sia del dolore, così casso ogni riga se ne avverto il sentore, a meno che non sia voluta e non abbia deciso di lanciarmi in uno scritto epico, che comunque non riesco a prendere sul serio, pertanto scrivere durante le feste mi diventa impossibile, non riesco neanche a buttare giù due righe di auguri senza che la faccenda mi appaia insopportabilmente cretina.
In più, nel vuoto totale di voglia di scrivere, coltivo una forma di drammatica insicurezza, che si materializza spesso nell’uso di lunghissimi avverbi di modo, come quell’insopportabile “insopportabilmente” di tre righe più su.
Sono due mesi che vorrei scrivere, ma tutto mi allontana dalla scrittura, persino i pensieri ai quali ipotizzo di dare forma.
Poi dico che sono stanca, che sono troppo impegnata, che non ho nulla di interessante da raccontare e tengo tutto dentro, ormai schiva, solitaria e misantropa come sono, convinta che non ne valga la pena.
Sono alibi, lo so benissimo, ma per disgregare certi blocchi ci vorrebbe qualcosa di bellissimo, o anche solo una piccola scintilla che riaccenda il fuoco, ammesso che ci sia abbastanza legna per attizzarlo.
Non muore nessuno, se non scrivo, però muoio un po’ io.
Vorrei tanto tornare ai tempi della scuola, aspettare con trepidazione il giorno del tema, mettercela tutta per quelle quattro ore e portare a casa la malacopia per la mamma, che mi aspettava sulla soglia di casa, con la sigaretta in mano, ansiosa di leggere le mie parole che, come diceva lei, “la ripagavano di tutto”.
Bene, ora che l’ho scritto e che mi sono fatta anche il mio pianto, come sempre quando parlo della mamma, si chiude il cerchio del mio odio per le feste, dell’esilio, del rituale dei tortellini e del gelido deserto della tundra.

Però, intanto, ho scritto qualcosa.