domenica 30 novembre 2014

Tentativi di meditazione

Da un po' di tempo ho deciso di dedicarmi alla meditazione.
Contrariamente all'uso che si fa del termine, meditare non significa pensare, ma al contrario pacificare la mente mettendo a tacere il suo lavorio incessante.
Per farlo occorre concentrarsi sul momento presente e per i principianti questo si ottiene osservando unicamente il proprio respiro.
Detta così non sembra difficile, invece è una faccenda complicatissima.
In primo luogo, infatti, la mente scappa da tutte le parti, produce immagini, va a perdersi in un'infinità di rigagnoli di pensieri sconnessi, si concentra su se stessa che non riesce a concentrarsi. A me ricorda un gas che sfugge nell'aria dilatandosi per quanto spazio trova intorno, ed evidentemente di spazio intorno alla mente ce n'è molto.
Mi hanno detto che tutto ciò è normale e che il lavoro del meditatore è proprio allenarsi a riacchiappare la mente fuggitiva e riportarla sempre al punto fermo, al respiro o all'oggetto su cui si medita, a se stessa che medita con la consapevolezza di farlo, ma senza pensarlo.
Il secondo problema è costituito dalla situazione di contorno: per meditare occorre un posto tranquillo, magari sempre lo stesso, trovare una posizione comoda e poter godere di un certo periodo di tempo senza interruzioni, magari solo un quarto d'ora, ma di pace.
I meditatori esperti pare riescano a meditare anche pochi istanti mentre sono fermi a un semaforo, o in coda alle poste, o nel bel mezzo di una stazione dei treni, ma non ho ancora sottolineato abbastanza che io sono una principiante, dotata tra l'altro di mente rumorosissima, affollata, ribelle e refrattaria al controllo.
Però sono tenace.



Ogni giorno ci provo, generalmente alla mattina, prima di colazione: mi alzo, bevo una tazza di acqua calda con il limone – non c'entra niente con la meditazione, ma pulisce il fegato e pare faccia benissimo per un sacco di altre cose che non ricordo- dò i croccantini ai gatti, poi mi infilo di nuovo sotto le coperte, abbozzo una posizione del loto compatibile con la mia ernia lombosacrale congelata nell'ozono e comunque appoggiata a due grossi cuscini, punto il timer su venti minuti -tempo ragguardevole per un principiante- e inizio ad ascoltare il mio respiro.
In quel preciso momento il cane, che dorme steso sul letto, si alza, si stiracchia, compie un mezzo giro su se stesso, poi si lascia cadere pesantemente sulle mie gambe, arrotolandosi con il muso infilato tra le mie mani- raccolte a ciotola con pollici e indici uniti- che pensa bene di leccare con meticolosità.
Contemporaneamente, come se rispondesse a un segnale convenuto, il gatto nuvola comincia a miagolare contro la gatta nevrotica, che a sua volta ringhia.
Io sono tenace, cerco di restare attaccata al respiro, ma in realtà sto pensando che devo passare dal calzolaio a far risuolare un paio di stivali.
Tra i gatti scoppia una zuffa, il cane scatta dal letto con un balzo e corre a immischiarsi in questioni feline che non lo riguardano personalmente, ma diventano fatti suoi in quanto tutore dell'ordine domestico.
Da quella via che s'è alzato, va anche a far pipì sul tappetino igienico -benedetto colui che l'ha inventato-, poi con un altro balzo torna a letto, fa un altro mezzo giro, mi piomba addosso di nuovo e si addormenta di colpo.
Tenace più che mai, riafferro il respiro, e ho l'illusione di avere fatto il vuoto, prima di iniziare a vedere nella mia mente il dilagare di bolle di sapone colorate.
Mi concentro di nuovo.
Il cane si sveglia ancora più di colpo di come si era addormentato e decide che è ora di farsi il bidè.
Tenacissima, resto nel respiro mentre penso a un menu di massima per la settimana, all'antigelo da mettere nella Panda gialla, alla verifica di Storia da somministrare alla classe, a una telefonata che voglio fare a un'amica, poi mi viene in mente che è da un sacco che non sento mia zia, che non trovo più un maglione nero con il collo alto, che devo assolutamente stirare, che vorrei leggere e rileggere tutto Calvino, che giovedì mi sono dimenticata di comperare la Settimana Enigmistica, poi altre bolle di sapone, un pesce, una collina, il profumo delle foglie umide in autunno, devo ricominciare a contare le calorie, devo regolare il cronotermostato, oh, cazzo, il respiro.
Ricomincio, trovo il respiro e per un attimo c'è davvero il vuoto nella mente, almeno quello lasciato vuoto da una fitta di dolore feroce al centro della fronte, dove sta il terzo occhio, quello che si ostina a restare chiuso.
La mia mente, costretta all'immobilità, duole come stretta in una morsa.
Non faccio in tempo ad abbracciare il dolore perché passi, che il gatto pumardo rovescia qualcosa in cucina.
Mi impongo di non andare a controllare, anche se il chiodo resta, benché piantato a metà.
Concentrazione, respiro, tenacia.
Mi si sono intorpidite le gambe, forse perché il cane ci tiene appoggiata la testa.
Il gatto nuvola si fa le unghie sullo scatolone che gli ho lasciato, si accanisce spietato sul cartone come se volesse sventrarlo.
In strada passa il camion della spazzatura, con i bracci meccanici che raccolgono i cassonetti, li svuotano e li depongono senza grazia di nuovo in strada sbuffando.
Concentrazione, tenacia, respiro, bolle di sapone, mal di testa.
Il cane balza dal letto e va a controllare cosa stanno facendo i gatti, poi fa un salto di nuovo sul letto, compie il consueto mezzo giro, si butta di nuovo addosso a me e mi lecca le mani -sempre raccolte a ciotola con pollici e indici uniti.
Respiro, concentrazione, tenacia
La gatta nevrotica ringhia al gatto nuvola, il gatto pumardo trova un sonaglio e comincia a rincorrerlo per casa.
Tenacia, respiro, mal di testa, devo andare a vedere cosa ha rovesciato il gatto, concentrazione, è da un sacco di tempo che non sento mia zia.
Il gatto pumardo sale sul letto, si stende sulle mie gambe dal lato opposto al cane e comincia a fare le fusa.
Mal di testa, odore delle foglie in autunno, concentrazione, tenacia, respiro.
Il gatto nuvola e la gatta nevrotica si azzuffano il cane balza dal letto, il gatto pumardo serafico ne approfitta per guadagnare il mio grembo, nonostante le mani a ciotola con pollici e indici uniti.
Risuolare gli stivali, concentrazione, antigelo della Panda gialla, tenacia, giovedì che ho ospiti potrei cucinare la polenta con la salsiccia, respiro.
Ci riesco, un attimo, ma ci riesco.
Suona la sveglia.
Mi alzo e non so se sono rilassata, o solo intorpidita, o comunque divertita.
Le persone vivono con l'assurda convinzione di poter avere il controllo della propria vita, di quella degli altri, degli avvenimenti.
Già riuscire a controllare la nostra mente per qualche attimo è un gran successo: se la meditazione serve a diventare consapevoli di questo, allora funziona, e io ci riesco benissimo.


lunedì 21 luglio 2014

In questo ultimo giorno

Domani accompagnerò Menta nel suo ultimo viaggio.
Abbiamo vissuto insieme sedici anni, per questo voglio scriverne oggi, quando è ancora viva, distesa accanto a me, viva benché in affanno e con quella cosa tremenda che le deforma il ventre e me la sta portando via, giorno dopo giorno, da qualche mese.
Voglio scriverne oggi, perché è la sua vita che voglio celebrare e domani non potrò più, domani desidererò solo silenzio per poter piangere in pace la sua pace.
Questo ultimo giorno che sembra quasi inutile, durante il quale vorrei fare tutto ciò che le piace, regalarle tutta la felicità del mondo, ma non posso, lei non ce la fa più, non sa più che fare di se stessa.
Come sempre mi chiedo se non ho aspettato troppo, oltre quella soglia del dolore che lei non sa descrivere e io non so vedere, perché non voglio vederlo, non voglio, non voglio.
Ma devo.
Avevo giurato che non l’avrei fatta soffrire neppure un minuto più del necessario, e ora mi bastonerei, per la mia piccolezza, il mio egoismo, questo assurdo e solo umano attaccamento a una vita che non è vita e non è neanche più quella a cui sono attaccata.
No, non è così che voglio parlare di lei, non è così che voglio vivere insieme a lei il suo ultimo giorno.




Era minuscola la prima volta che la vidi, avrà avuto venti giorni.
Figlia del cane di un’amica, la presi in braccio, mi stesi sul divano e lei si addormentò sul mio cuore, prendendone possesso, come solo un cane sa fare.
Un mese dopo la portai a casa, dove c’erano un giovane gatto, due bambini e una donna, neanche quarantenne, molto confusa, che camminava sul confine della depressione: io.
Avevo poco tempo e poca pazienza per un cucciolo, ma mi ammalai e mi si incrinò la schiena, un giorno che sfogai la rabbia per la morte di mia sorella picchiando forte sul materasso con un pesante bastone.
Nei mesi di convalescenza, Menta mi accompagnava nelle lunghe passeggiate nei campi, baldanzosa e velocissima, sempre con il naso a terra fino a conoscere la campagna palmo a palmo. 
Io camminavo lentamente, mi fermavo, meditavo guardando la luce di febbraio attraverso un grosso cristallo di fluorite, lei inseguiva strade olfattive, puntino bianco sulla terra che si preparava al risveglio.
Avevamo il nostro tragitto: percorrevamo la cavedagna dietro casa attraverso i terreni seminati, arrivavamo fino alla grande casa colonica del contadino, poi da lì viravamo verso il macero, poi lungo il frutteto, infine ci congiungevamo di nuovo con la strada che ci riportava a casa.
Venne primavera molto presto, quell’anno, il clima era già tiepido e ogni giorno vedevo le gemme che spuntavano sui rami degli alberi, ritornando un po’ alla volta alla vita anch’io.
E lei era accanto a me, correva, spariva ad annusare tane in qualche fosso, poi con l’avanzare della stagione veniva nascosta dalle piante, sempre più alte e più verdi, finché non si vedeva niente altro se non il pennacchio della sua coda che sventolava tra le foglie, o il muso peloso comparire tra le spighe, o un volo di fagiani, o una corsa di leprotti, che preannunciavano uno dei suoi folli e infruttuosi inseguimenti.
Ogni tanto veniva a controllare che non mi fossi persa -ma io ero persa, mi stavo ritrovando- poi scappava di nuovo a correre dietro alla sua infanzia di cane.
Sorrideva sempre Menta, tornava ansimando con la lingua penzoloni e la luce che brillava nei suoi occhi tondi, su quel muso da cane di pezza.
Io non sono mai stata sola, nel più terribile momento di solitudine della mia vita, perché c’era sempre Menta con me.
Padrona del giardino e padrona dei campi, a volte se ne andava in giro da sola e rientrava dopo ore, con il pelo lungo attorcigliato a rametti, fili d’erba, fiori.
Per qualche anno siamo state serene: lei con la sua libertà, io con il mio equilibrio precario. 
La casa si riempì di gatti, e di cani di passaggio, ma Menta è sempre stata buona e paziente, andava d’accordo con tutti.
Poi di nuovo un altro colpo.
Per un paio d’anni mi dimenticai di lei, presa com’ero da problemi che mi parevano più grandi di me. Certo, la portavo con me in vacanza, le davo ciò che era necessario per sopravvivere, ma attenzioni non ne avevo e ancora non posso perdonarmelo. Non ce la facevo.
Quando decidemmo di cambiare casa, di lasciare la campagna per la città, iniziò una nuova vita: la mia quarta, quinta...la sua terza.
Il periodo del trasloco fu faticosissimo: eravamo ospiti, la casa nuova da ristrutturare, i ragazzi impegnati a studiare durante l’estate, io tutto il giorno in cantiere con i muratori, perché c’erano pochi soldi, c’era poco tempo, dovevo rimboccarmi le maniche.
Eppure fu l’inizio della parte migliore della nostra vita insieme.
Menta ed io eravamo entrambe mature, ci conoscevamo bene, lei continuava a fidarsi di me ciecamente anche se per due anni l’avevo tradita, io le ero immensamente grata perché non mi aveva mai rimproverata e mi stava vicina nei pochi momenti di pace di quelle giornate calde e calcinose.
Uscivamo al mattino prestissimo, non erano neanche le sette, io tenevo le cuffie nelle orecchie e ascoltavo sempre, ogni giorno, From the Beginning, lasciando che l’arpeggio della chitarra di Lake, la sua voce di velluto e quella chiusura di moog di Emerson che ogni volta mi dava i brividi, ci portassero verso i Giardini Margherita, quando ancora la giornata era rosata, l’odore dell’erba pungente di umidità notturna e l’intero mondo solo nostro. 
Menta, io, e From the Beginning in loop.
Restavamo al parco più di un’ora, un po’ alla volta avevamo anche trovato degli amici altrettanto mattinieri. 
Queste passeggiate erano indispensabili per affrontare la giornata, non ce l’avrei mai fatta se Menta non mi avesse portata fuori ogni giorno così presto.
Alla sera, di nuovo: dopo ore di cantiere, polvere e fatica, arrivavo a casa, mi facevo una doccia e di nuovo fuori, ancora un’ora e più, ancora con il mio cane.
Da allora non mi sono mai più dimenticata di lei, non l’ho mai più lasciata sola. 
Ogni volta che la guardo provo solo un’infinita gratitudine e un amore così tenero, che è raro provarlo anche per un essere umano.
Anche in questi ultimi anni, da quando è vecchia, da quando è incontinente, sorda, quasi cieca, spesso così in affanno da doverla prendere in braccio per salire le scale, da quando è così poco presente, ma bisognosa di cure, Menta resta una delle creature che mi sono più care al mondo.
In questi giorni, alla sera soprattutto, me la prendo in braccio e prego perché muoia così, stesa su di me, avvolta nel mio odore, ma lei non ce la fa.
Io l’ho già lasciata andare, lo so che non piangerò la sua morte, ma piangerò rimpiangendo la sua vita, la nostra vita insieme, che non se ne va con lei com’è ora, se n’è già andata, un po’ alla volta, in questi sedici anni.

Ci sono momenti in cui si muore di più.
Tutti stiamo morendo, giorno dopo giorno, ma ci sono momenti in cui la morte non è più l’astratta prospettiva dell’inevitabile, bensì l’avvicinarsi di una realtà.
In questi ultimi mesi io l’ho visto attraverso Menta, ancora mi ha insegnato qualcosa, ancora ha arricchito la mia vita.
Lei stava morendo di più di me, e pure questo era inevitabile. 
Non posso fermarlo, non posso impedirlo, non posso riavere indietro - io, ora, come sono adesso- lei com’era, com’è stata, lei com’è ora ma senza dolore e senza affanno.
Devo solo riuscire ad accettare questo distacco dolorosissimo, decidere ancora una volta per la sua vita, lasciare che l’ennesima ferita cicatrizzi, con il suo carico di perché.
Io sono buddista e credo che la vita sia un ciclo di due fasi - vita e morte- che si alternano in un continuo lasciarsi e ritrovarsi.
Ci ritroveremo, Menta e io, non so quando, non so come, non saremo certamente più Menta e io eppure lo saremo, e succederà, voglio crederlo con tutta me stessa.
Però ci penserò domani, perché ora, in questo ultimo giorno, voglio abbracciarla e tenerla stretta, io come sono, lei com’è.
Menta e io, in questo ultimo giorno.




domenica 18 maggio 2014

Nullus amicus magis liber quam liber

Tutto è (ri)cominciato con la morte di Gabriel García Márquez, a metà aprile.
La notizia mi ha scombussolata parecchio, ho anche pianto tanto, come se se ne fosse andato un vecchio amico. I libri di Gabo mi hanno accompagnata per un lungo tratto della mia vita, da quella prima volta, intorno ai diciassette anni, che lessi Cent’anni di solitudine. 
Così, per rendergli omaggio, ho preso in mano uno dei suoi libri che possedevo ma che non avevo ancora letto - Memorie delle mie puttane tristi, che tra l’altro non m’è neppure piaciuto granché -  e mi sono messa a leggere.
Fin qui non ci sarebbe nulla di strano da rilevare, se non che durante il periodo della scuola riesco a leggere ben poco: durante i primi mesi perché devo prendere il ritmo - con la fatica da vecchio diesel sovietico che faccio - a metà anno perché sono troppo impegnata e in questi ultimi scampoli di anno scolastico perché sono troppo stanca, di una stanchezza intima e profonda che si traduce in una condizione costante assai vicina alla narcolessia.
Caso ha voluto, tuttavia, che per una serie di circostanze di natura medica, proprio in questo periodo abbia iniziato a praticare un regime alimentare piuttosto severo, che nei primi tempi si è tradotto in una certa inclinazione all’insonnia.
Insomma, insondabili fili cosmici hanno intrecciato la loro rete, nella quale sono stata catturata: due giorni e il libro era finito.
Nel frattempo avevo iniziato una conversazione con un amico a proposito dei grandi scrittori sudamericani, e poiché lui mi ha citato Mario Vargas Llosa, maestro peruviano del quale non avevo letto nulla, pur possedendo nella mia biblioteca ben tre suoi libri, ne ho agguantato uno e me lo sono polverizzato in tre giorni. Tra l’alto era pure difficile.
Faccio un inciso: tre righe più su ho scritto “...non avevo letto nulla” e vorrei sottolineare come questa confessione, che un tempo avrei ritenuto infamante, ora mi costi poca fatica. Sono molti i libri che non ho letto, molti sono grandi classici oppure opere di autori considerati “fondamentali” e una volta non avrei mai avuto il coraggio di ammetterlo, per via di un certo bisogno di dimostrare sempre qualcosa di me, o di nascondere i miei limiti, attraverso un uso alternato, accorto e abbastanza aggraziato di omissioni e autoironia. Del resto, in linea di massima non provo alcun feeling letterario con l’Ottocento, quindi è evidente che mi sia persa un bel po’ di cose, non tutte, ma comunque un bel po’. Fine dell’inciso.
Una volta terminato il romanzo di Vargas Llosa, sono andata a spulciare il reparto hispanohablante della mia biblioteca e ne ho estratto la trilogia di Maqroll di Álvaro Mutis, tre romanzi brevi ma intensi dello scrittore colombiano, dei quali mi è piaciuto il primo, il secondo m’ha fatto venire il nervoso e il terzo mi ha lasciata con l’amaro in bocca, nonostante la bellissima scrittura e il primo sintomo di compulsione che mi si è manifestato all’improvviso nel bel mezzo de La neve dell’ammiraglio.
Sì, perché io con i libri ho lo stesso rapporto che ha un alcolista con la sua droga: o non leggo proprio, in preda a una desolata sobrietà, oppure non sopporto di prefigurarmi la fine di un libro senza averne già pronto un altro, o molti altri dello stesso autore nel caso mi innamorassi di lui, o di lei, lungo la strada. Il mio bicchiere deve essere sempre pieno, così mentre sono alle prese con un libro ne preparo altri tre, dello stesso autore, o di autori limitrofi, o che io ritengo collegati da chissà quali percorsi, e se non li ho in casa, li compero, in una pericolosa progressione esponenziale.
Questa esplosione di entusiasmo verso i libri, che mi ha investita e travolta con un’ondata di ritrovata gioia, mi ha riportato alla mente anche ricordi bellissimi, di quelli in grado di rinfrescare la vita, recuperando e restituendole il senso del privilegio per averla potuta vivere così. 
Mi sono ricordata soprattutto le lunghe giornate in collina, durante l’estate, stesa su un prato con mio marito, i nostri cani, il nostro gatto e un libro a testa, immersi ciascuno nel suo mondo, eppure così insieme; mi sono ricordata che un giorno si ruppe un termosifone, si allagò la casa e molti libri andarono perduti, macerati dai flutti bollenti, ma molti di quelli che riuscimmo a salvare ci sono ancora, sono qui, riconoscibili da una linea irregolare che separa la parte inferiore, ondulata e ingiallita, da quella superiore, intatta; mi sono ricordata quando mi tuffai ne I Buddenbrook di Mann e per tre giorni non gli parlai, non riuscii a dormire se non per le poche ore indispensabili, mangiai con il libro incollato al naso, mentre lui lamentava di essermi diventato momentaneamente del tutto indifferente. E molto altro, mi sono ricordata: la terrazza della casa del mare dove passavo le ore a leggere mentre tutti facevano la siesta nella calura di agosto, le notti in bianco con gli occhi ormai appannati, le montagne di gialli iniziati al mattino e finiti la sera -o viceversa-, l’innamoramento che mi prendeva per certi personaggi, la rabbia, a volte un vero e proprio odio, verso altri, le lacrime, quel senso di perdita che si prova quando finisce un libro troppo presto e noi ne vorremmo ancora.
Mentre ricordavo, e leggevo, e mettevo da parte i libri in lista d’attesa e ne comperavo altri, mi è venuta anche voglia di rileggere libri che non ricordo più, attività che ho praticato assai di rado, poiché l’ho considerata a lungo - erroneamente - una perdita di tempo.
Siccome sono una che non può esimersi dall’effettuare tentativi, spesso assai goffi, di racchiudere la mutevole e imprevedibile realtà in un sistema controllabile, matematico, statistico o quant’altro, mi sono sempre detta che se mantenessi una media di una quarantina di libri all’anno, se il cielo mi assicurasse in salute e lucida per altri venticinque anni e se Santa Lucia mi conservasse la vista, ora come ora avrei davanti a me non più di un migliaio di libri, senza calcolare che esistono libri veloci e libri lenti - non necessariamente lunghi, i libri hanno un loro ritmo - esistono momenti in cui non si riesce a leggere, periodi di caduta e sfilacciamento della passione e quindi il mio calcolo è comunque soggetto ad ogni sorta di bizzarria del destino, tanto da risultare certamente ottimistico.
In ogni caso, anche se davvero potessi, di qui all’eternità, leggere mille libri, dovrei scegliere bene, perciò rileggere libri che ho già letto potrebbe sembrare una perdita di tempo, ma siccome trent’anni, vent’anni, anche solo cinque anni fa ero un’altra persona, potrei leggere i dieci libri fondamentali della mia vita per cento volte a distanza di un po’ di tempo e ritrovarli come nuovi.
Un’altra faccenda bella di cui mi sono accorta in questo mese, vivendo sempre con un libro in mano (a oggi ne ho letti otto e sono a metà del nono), è che la vicenda narrata in un romanzo mi affascina meno della scrittura, verso la quale sono diventata estremamente sensibile ed esigente. Auster, per fare un esempio, me lo sono bruciato al primo romanzo perché usa troppo i puntini di sospensione: sei, sette volte in trecentocinquanta pagine sono decisamente troppe.



Il rovescio della medaglia, quello doloroso, è che a me piace la Letteratura, quella con la maiuscola, mi confronto sempre con grandi autori, maestri della parola dotati di un respiro che fa sobbalzare il cuore. 
Leggere è come andare in bicicletta, non ci si dimentica mai come si fa, e anche se s’è fatta una pausa, basta pochissimo per ritornare sicuri come prima, ancora più di prima, e riconoscere tra le righe la meraviglia di una serie di parole inanellate con il ritmo, l’eleganza e l’originalità che è propria dei grandi scrittori, quelli che, per fortuna e purtroppo, sono i miei modelli e rispetto ai quali non mi sentirò mai all’altezza di scrivere nulla di più di queste sciocchezze.


mercoledì 16 aprile 2014

Il magico momento delle adozioni

Poco più di un mese fa, durante un triste pomeriggio a scuola, si è presentata in classe una simpatica ragazza con una carriola di libri.
Cercava me.
Profondamente stupita, le ho chiesto la ragione di questa visita inaspettata, ma graditissima, e mi sono sentita rispondere: “Le ho portato in visione i libri per l’adozione del biennio”.
Ho sentito come un lampo di elettricità attraversarmi dalla sommità della testa fino alla punta dei piedi, scaricare a terra e lasciarmi basita in un alone di luce.
Dopo cinque anni di adozioni bloccate, cinque anni di inferno durante i quali m’è toccato di lavorare con libri scelti da altri, finalmente ritornavo padrona del mio destino, libera di decidere gli strumenti da utilizzare e di immaginare un percorso costruito a mia misura.
Sono sopravvissuta per un lustro macinando fotocopie, creando patchwork di altri libri, scrivendo interi capitoli alla lavagna, incapace di ritrovarmi tra le pagine di testi scolastici orrendi che non mi appartenevano in alcun modo.
Non che io ritenga di scegliere meglio di altri, per carità, ma se con i libri ci devo lavorare, devo poterli vagliare, ponderando su ogni argomento, valutando i pro e i contro di ogni testo, pianificando come integrare quello che manca, come scandire il mio progetto educativo, in che modo farmeli aderire addosso come un abito di sartoria.
Non posso lavorare bene con libri scelti da altri, sarebbe come pretendere da un tennista che giocasse con una racchetta dall’impugnatura sbagliata, far usare a un imbianchino un rullo inadatto alla superficie da dipingere, far indossare a una ballerina scarpe troppo strette, costringere un miope a leggere con occhiali da astigmatico: se uno è bravo ci riesce lo stesso, ma non lo fa bene come vorrebbe e gli costa una fatica insensata.
Ho provato per la simpatica rappresentante un affetto smisurato e per i suoi libri un’immediata benevolenza.
Nel giro di un mese sono arrivati tutti i distributori della zona, quando li ho intercettati mi sono fatta portare i libri direttamente in classe, li ho raccolti con una forma di feticismo appassionato ed ho cominciato a sfogliarli.
Sapevo bene che stava iniziando un periodo di gioia e dilemmi, di meditazioni notturne, di progetti ambiziosissimi, di sogni rosei di fare della mia classe un fulgido esempio di sapienza umanistica -sogni destinati a franare al cospetto dell’indifferenza che la maggior parte dei bambini riserva alla cultura. 
Negli anni delle adozioni dei libri, nessuna considerazione realistica può scalfire il mio entusiasmo di fronte all’arrivo dei rappresentanti.
Dicono di me che ho il tiro alto con le classi, ed è vero, ma per quanto io possa tirare in alto, le classi ci pensano da sole a ridimensionare le mie manie di grandezza.
In ogni caso, una volta raccolti un po’ di libri, procedo a una prima scrematura, in modo abitrario, empirico, emotivo e discutibile, cioè mi fido del primo impatto visivo: apro il libro a caso e se la grafica non mi attira, se le pagine sono troppo piene, troppo colorate e i caratteri non mi piacciono, lo scarto subito. 
Magari è un bel testo, magari i contenuti sono eccellenti e l’impostazione è organica, ma un libro con una brutta grafica per me è una sofferenza, e quasi sempre non solo per me. 
I bambini si confondono quando le pagine sono troppo dispersive o gli arriva un’ondata di informazioni tutte insieme, un buon libro deve essere lineare, ordinato, con uno schema preciso facilmente identificabile, uguale fino alla fine.
Tra quelli che sopravvivono, inizio il confronto leggendo soprattutto la parte di Storia, e con quelli che superano l’esame -  molto severo, ho cassato libri solo perché non trattavano gli Ittiti con il dovuto rispetto - passo al setaccio Geografia, dove mozzo teste a tutto spiano se non mi soddisfa la posizione e il rilievo che riservano al reticolo geografico e alle zone climatiche del mondo. 
Ognuno ha le sue manie, abbiate pazienza.
La mia collega, dal canto suo, procede al vaglio della parte di Matematica e Scienze in autonomia e ci incontriamo alla fine con i pochi testi scampati all’analisi spietata, ciascuna con i suoi.
Quindi torniamo a rifare tutto il processo solo per i libri che entrambe abbiamo salvato.
Quest’anno, forse per via della gioia dopo cinque anni di deprivazioni, si erano salvati tre libri, sui quali la mia collega aveva rimesso a me la scelta e io non sapevo decidermi.
Due giorni fa, tuttavia, in circostanze del tutto casuali, abbiamo scoperto che nell’aula insegnanti era stata raccolta almeno un’altra dozzina di testi che non avevo intercettato personalmente e io ho avuto un tuffo al cuore, non solo perché da bibliofila mi ha preso l’esaltazione di fronte a un simile tesoro, ma pure perché temevo di trovare qualcosa che avrebbe reso ancora più grave la mia indecisione.
Invece è accaduto il miracolo, ho trovato il libro sul quale non ho dubbi, quello quasi perfetto, quasi come se l’avessi scritto io per poterci lavorare, quello per il quale sono pronta a dare battaglia. 
Per fortuna piace anche alla mia collega, per fortuna è quello che piace di più anche a lei e io un po’ la amo.


Ora devo affrontare il libro di Italiano, che sarà una scelta tutta mia, ma ho ristretto il campo a due, da una ventina che ci hanno lasciato in visione, non solo perché sono ben organizzati e hanno una buona scelta di autori, ma trattano pure le figure retoriche come si deve e introducono analisi logica e analisi del periodo, argomenti che con questa classe non riuscirò probabilmente a svolgere, a meno di una folgorazione collettiva, ma io il tiro lo voglio tenere alto, che ad abbassarlo c’è sempre tempo.
Credo che se resterò indecisa, alla fine mi giocherò l’ultima carta: deciderò con il naso, in base all’odore.
La prima volta che ho insegnato in una prima elementare ho scelto, tra due libri molto belli, quello che profumava di vaniglia, ed è andata benissimo...





domenica 23 febbraio 2014

Com'è strano oggi il sole

Ne stanno morendo tanti, uno dopo l’altro.
Stiamo invecchiando noi, stanno invecchiando loro ancora di più, alcuni sono malati, altri vittime di fatalità, come tutti gli esseri umani.
Loro muoiono e con loro se vanno pezzi della nostra vita, quelli che hanno riempito di emozioni e ricordi, quelli che sono legati a una canzone, a un concerto, a un abbraccio, a un’estate di confidenze notturne in riva al mare.
Nel rapporto con la morte c’è sempre una buona parte di egoismo: salvo avere amato tanto chi se ne va, tanto da soffrire per la vita che non vivrà più, quello che sanguina in tutti gli altri casi è sempre lo strappo della perdita nel nostro cuore, quello che mancherà a noi.
Quando muore un artista succede esattamente questo.
Nella musica forse più che in qualsiasi altra arte, l’opera e l’artista sono difficilmente scindibili, si ama così tanto certa musica che si vive nell’illusione che la precarietà umana dell’esistenza dell’artista sia assorbita e annullata dall’eternità dell’opera d’arte, e che entrambi godano di un soffio divino di immortalità.
I musicisti che amiamo sono cristallizzati nelle nostre emozioni, dove anche noi siamo sempre gli stessi, sempre uguali alla prima volta a dispetto delle evidenze, ma in tutto questo non c’è errore, perché davvero ogni volta che la musica torna ad avvolgerci, la puntina scorre in cerchi antichi del nostro tronco che non sono mai stati cancellati.
E se la musica è immortale, se è immortale anche il musicista che l’ha creata, quando la ascoltiamo anche noi lo diventiamo e lo diventano le nostre emozioni.
La morte di un musicista spezza la magia di questa illusione e ci riporta alla realtà.
Questo è il pezzo di vita che se ne va, il doloroso rinnovarsi della perdita del senso di immortalità, quello che stordisce e confonde quando si diventa adulti.
Stordisce e confonde ogni volta la ragazzina di diciassette anni che vive e palpita dentro di me, perché questo io sono ogni volta che mi lascio avvolgere dalla mia musica.

Grazie, Francesco.


lunedì 10 febbraio 2014

Veli pindarici

Eccoli, sono tornati.
Li attendevo e finalmente li vedo di nuovo. 

Sono veli sottili, così leggeri ed impalpabili da poterli solo intuire attraverso l'aria perfettamente tersa. 
Sono silenziose pennellate d'acquerello, tenui movimenti di luci opache e radenti.
Godono del favore dei cieli autunnali, al mattino, dopo la pioggia, o dei bagliori di primavere precoci incastonate nel cuore dell'inverno. 
Li precede un presentimento vago che per giorni mi lascia immobile, paralizzata da pretesti al condizionale, incapace di formulare inutili definizioni. 
Tutta la pelle viene carezzata da un'aura quasi impercettibile, che tuttavia si insinua in un corso morbido di palpiti interni. 
Non posso concentrarmi su nulla, solo restare in sensibile attesa del visionario abbandono del quale avverto l'imminente onda.
A volte li chiamo, smanio nel desiderio di esserne rapita nascondendomi in  uno speranzoso dormiveglia, sorrido a me stessa, mi allontano da me e mi guardo, quasi con rancore nel sentirmi limitata, quasi con amore nell'avvertirmi eletta e predestinata ad assistere al prodigio di questo grande, inafferrabile respiro.
Quando giungono posso vederli in ogni elemento: nell'acqua che scorre, nelle  volute di fumo, nelle venature del legno, negli sfioramenti con la punta delle dita di superfici che l'abitudine ha sottratto alla mia coscienza.
Ciò che mi circonda diventa nuovo e inaspettato, ne colgo i dettagli, ne subisco il fascino. 
Luci ed ombre, piccole curve, morbide geometrie, inclinazioni, spessori, vicinanze di oggetti acquistano significati inattesi, svincolati dalle logiche secondo le quali sono stati creati e disposti, assegnando invece al caso il ruolo di protagonista. 
Allora vedo i fili che si intrecciano ad attribuire sostanza a ciò che fino a poco prima sembrava costruita apparenza, si sgretolano vincoli e certezze, a nulla vale cercare nella razionalità alibi per rifiutare questa realtà che si dice distorta pur essendo la sola reale.
Un tempo non era così.
Temevo la venuta di quelli che sentivo oscuri fantasmi. 
Avevo bisogno di angolazioni precise e di archivi ordinati. Non c'erano aure, aliti di brezza, morbide danze, ma fiammate, squarci di luce violenta, contraddizioni che si agitavano in un frenetico sabba del quale sentivo d'essere la vittima, povero essere di viscere scure da strappare come sacrificio a divinità spietate.
Venivo frustata, graffiata, lapidata con pietre pesanti se solo osavo alzare lo sguardo a rivendicare le mie piccole, soggettive, fragili verità.
Non c'era attesa, ma terrore; non desideravo abbandono, ma invocavo di non perdere la forza, banalmente umana, che mi sosteneva a non cedere.
Venivo divorata da un pianto interiore di cui avvertivo i morsi: lo sentivo masticare brandelli di me e scavare, sbranandomi, gallerie che restavano vuote e risuonavano cupe di echi spaventosi.
Mi sentivo nuda e ferita, battuta da piogge pungenti come spine, conficcata in terre desolate nelle quali non volevo affondare. 
C'erano radici prive di linfa e rami secchi da cui la vita defluiva senza possibilità di arrestarla.
Io c'ero, subivo e guardavo impotente ciò che mi stavano facendo gli spettri delle mie negazioni. 
E maschere, sempre: di argilla, di legno, di metallo per le battaglie più dure, si frantumavano, si sfasciavano in schegge, vi si incidevano profonde fratture, ma ce n'erano altre pronte per non mostrare mai un volto che io stessa non potevo più identificare.
Stavo bene, ero perfetta sul palcoscenico del grande teatro, bastava non guardare l'angoscia negli occhi, la curiosità disperata che vi era riflessa, la muta richiesta di aiuto che baluginava ad ogni incontro che speravo speciale.
Stavo bene, indossavo con stile i costumi di scena, attrice di consumato talento, saggia e misurata. 
Le piccole sbavature erano intese come vezzi di interpretazione ma già, per taluni, parevano inaccettabili deragliamenti.
Ma io odiavo i miei ruoli, mi corrodevano come ruggine.
Le tempeste e le lunghe notti di gelo boreale le affrontavo sola e coperta di stracci, violata nella carne viva, procedendo sulle braci, nel fango, nei guadi melmosi, in aride steppe.
Quale aurora mi abbia spinta ad uscirne non lo so.
Ho camminato a lungo sul ciglio oltre il quale c'è l'abisso, la consegna irreversibile all'inferno, la perdita, il dolore distillato e sublimato. 
Non ho fatto il passo fatale, ho solo provato la vertigine della caduta, ho resistito all'attrazione magnetica del vuoto.
Poi ho visto riflessi di luce, compreso i colori, desiderato volare in alto, molto in alto, così lontana da non sentire altro che rarefatto silenzio.

E' così che sono tornata viva e diventata pazza.



venerdì 3 gennaio 2014

Le favolose virtù curative del brodino

Non conosco nessuno -a meno che non si tratti di persone che vivono in paesi dal clima equatoriale, che però non conosco - che alla parola “brodino” non si lascino sfuggire il presentimento di un intimo piacere attraverso un guizzo di luce negli occhi.
Che si tratti di reminiscenze bambine, o che sia il rinnovato sollievo di un primo pasto in ospedale dopo tre giorni di flebo, l’immagine del brodino rievoca in tutti, e in ciascuno, una sensazione di fumante benessere che scalda il cuore.
Quella superficie dorata, appena increspata da piccole onde oleose e rotonde, così apparentemente anonima, cela nei suoi abissi il potenziale di guarire da ogni male, del corpo e dell’anima.
Se la medicina tradizionale lo sconsiglia in alcuni casi, specie nei disturbi gastrici, la saggezza popolare al contrario lo considera il primo e più efficace rimedio per qualsiasi malanno, dai geloni alla melancolia.
Il brodino è l’esempio più mirabile di un approccio olistico alla persona che ne beneficia, tocca corde profonde, affonda la sua natura nei ricordi più lontani della vita presente e, chissà, anche di quelle passate.
Il brodino deve essere bollente, deve scaldare le membra nelle buie giornate invernali e accenderle con la sua luce fluida, delicata e sapida, avvolgerle come un abbraccio, scendere lentamente e propagare il suo ineffabile calore, riportare vita dove il freddo sembra averla cristallizzata e resa immobile.
Che dire poi di quei momenti in cui il mondo ci sembra alieno e ci sentiamo distanti da tutto, persino da noi stessi? Quella incurabile solitudine che prende a tratti, senza spiegazione, che si ostina a non abbandonarci, persi in un deserto, naufraghi nel nulla, si cura con un brodino, un bel brodino il cui fumo profumato dissolve i cattivi pensieri, rendendoli eterei, volatili, fuggevoli, come una nuvola che si sfalda nel cielo per lasciare il posto a quel primo, quasi miracoloso, raggio di sole.
Certo, gli antibiotici hanno fatto la loro parte per debellare le malattie, lo scandagliare l’inconscio ha contribuito a rendere a molti l’equilibrio perduto, ma prima di tutto ciò, se l’umanità ha potuto sopravvivere alle epidemie, alle carestie, alle eresie, alla morte e alla rinascita di Dio, è stato grazie al brodino.
Il brodino già produce i suoi effetti benefici dal momento in cui si prepara la pentola con le carni accuratamente scelte, il manzo da bollito, un pezzo di doppione, un ossobuco, o un bell’osso con la polpa, un quarto di gallina -o di cappone se si è in atmosfera natalizia- una bella carota grossa, così da restare intera ed essere mangiata a parte, una costa di sedano, una cipolla, un pezzo di crosta di parmigiano. 
Quando comincia a prendere il colore biondo e a spandere nell’aria il suo inconfondibile aroma, prende forma anche l’idea del piacere che ne verrà, e sia che lo si nobiliti con i  succulenti tortellini, con gli alteri passatelli, o con la deliziosa zuppa imperiale, sia che si pensi di svilirlo con una dimessa pastina, il brodino non paventa né di essere messo in secondo piano, né di venire umiliato, perché la sua dignità, il suo prodigioso potere curativo, la sua natura salvifica, non si lasciano intimorire da nulla.
Non ultimo, il brodino svolge anche una insostituibile funzione sociale, è una cartina tornasole nei rapporti umani: si sceglie infatti, se possibile per passarci la vita, di avere accanto una persona che, in caso di bisogno, ci preparerebbe un brodino caldo. 
In caso contrario, nessun partner meriterebbe di essere preso in considerazione come tale, ma solo come momentanea avventura senza futuro.
Quindi, senza l’idea del brodino, non solo l’individuo sarebbe in balia della natura più crudele, ma non potrebbe riporre fiducia nel prossimo, resterebbe isolato e non esisterebbe alcuna famiglia.



L’essenza del brodino per me é il ricordo di quando da bambini, mio fratello e io, le malattie esantematiche ce le vaccinavamo da soli, riempiendoci di pustole pruriginose, con il febbrone, a letto intere giornate ad aspettare l’arrivo della nonna che pazientemente ci leggeva le fiabe e, verso il tardo pomeriggio, quando la febbre ci faceva battere i denti, richiamava all’ordine la mamma: “ Paola, è ora che i bambini prendano un brodino”. 
Era quasi la formula magica di uno sciamano, che unita al profumo della nonna, al suo tepore rassicurante, alla sua voce amica che leggeva, ci faceva immediatamente sentire meglio. Quando il peggio della malattia era passato e cominciava la noiosa quarantena, al brodino si facevano seguire le “polpette gustose”, poi chiamate solo “le gustose”, bollite nel latte e accompagnate dal purè.
Nella profondità dorata del brodino io vedo scorrere la storia di generazioni di nonne, mamme, bambini, focolari accesi, coperte lavorate all’uncinetto, manti di neve fuori dalla finestra e boschi con streghe che attirano i fanciulli in casette di cioccolato, casette nelle quali noi non saremmo finiti mai, perché l’odore del brodino ci faceva sentire protetti, al sicuro, curati e amati.

Se tutti ci illuminiamo, se diventiamo più romantici, non è solo perché ci ha risanati tante volte, ma piuttosto perché la vita appare molto più bella se la guardiamo riflessa nella luminosità preziosa della superficie di un brodino.


giovedì 2 gennaio 2014

Solo due righe per riprendere la mano

Non ho voglia di scrivere.
Ci ho anche provato, ma non mi riesce: non trovo le parole, tutto mi esce a fatica, tutto mi sembra poco interessante.
Ho provato a scrivere una lettera di Babbo Natale, un esercizio che ho fatto anche fare a qualche mia classe a scuola e l’idea poteva anche essere carina: una letterina del vecchio ciccione che si lamenta perché è un lavoratore a contratto, è costretto a vivere nella tundra -o nella taiga, che la differenza non l’ho mai capita, ma mi sa che la fanno i muschi e i licheni-  solo in compagnia di renne cagone e di folletti dispettosi.
Ci ho provato, ma i miei alunni, a suo tempo, hanno fatto molto di meglio.
Volevo anche scrivere una cosa sui tortellini, mi riprometto di farlo ogni giorno da due mesi a questa parte, ma nel frattempo ho tirato non meno di centocinquanta uova di sfoglia, di tortellini ne ho fatti circa trenta chili e ora ho la nausea perfino a parlarne.
Mi era venuto in mente anche di riversare su un foglio bianco i mille motivi per i quali detesto le feste e in questo periodo mi sento perfida, cinica e se mai coltivo tutto l’anno una buona quantità di speranze, queste svaniscono all’apparizione del primo festone, come se a me la cometa portasse in un vicolo cieco di disillusione, malinconia e senso di esilio, però ci sono motivi così profondi e dolorosi per tutto questo, che non sono pronta a parlarne, né seriamente -che mi faccio venire il nervoso da sola- né con la mano lieve, che è quella con la quale mi riesce meglio di scrivere, di solito.
Io poi ho una grossa difficoltà con la retorica, sia della gioia, sia del dolore, così casso ogni riga se ne avverto il sentore, a meno che non sia voluta e non abbia deciso di lanciarmi in uno scritto epico, che comunque non riesco a prendere sul serio, pertanto scrivere durante le feste mi diventa impossibile, non riesco neanche a buttare giù due righe di auguri senza che la faccenda mi appaia insopportabilmente cretina.
In più, nel vuoto totale di voglia di scrivere, coltivo una forma di drammatica insicurezza, che si materializza spesso nell’uso di lunghissimi avverbi di modo, come quell’insopportabile “insopportabilmente” di tre righe più su.
Sono due mesi che vorrei scrivere, ma tutto mi allontana dalla scrittura, persino i pensieri ai quali ipotizzo di dare forma.
Poi dico che sono stanca, che sono troppo impegnata, che non ho nulla di interessante da raccontare e tengo tutto dentro, ormai schiva, solitaria e misantropa come sono, convinta che non ne valga la pena.
Sono alibi, lo so benissimo, ma per disgregare certi blocchi ci vorrebbe qualcosa di bellissimo, o anche solo una piccola scintilla che riaccenda il fuoco, ammesso che ci sia abbastanza legna per attizzarlo.
Non muore nessuno, se non scrivo, però muoio un po’ io.
Vorrei tanto tornare ai tempi della scuola, aspettare con trepidazione il giorno del tema, mettercela tutta per quelle quattro ore e portare a casa la malacopia per la mamma, che mi aspettava sulla soglia di casa, con la sigaretta in mano, ansiosa di leggere le mie parole che, come diceva lei, “la ripagavano di tutto”.
Bene, ora che l’ho scritto e che mi sono fatta anche il mio pianto, come sempre quando parlo della mamma, si chiude il cerchio del mio odio per le feste, dell’esilio, del rituale dei tortellini e del gelido deserto della tundra.

Però, intanto, ho scritto qualcosa.