mercoledì 27 marzo 2013

Per colpa di un tacco


Ieri pomeriggio mi si è rotto il tacco di uno stivale, così oggi, all’uscita da scuola, ho deciso di portarlo in un centro commerciale da un calzolaio in grado di ripararlo subito, e ne ho approfittato per far sistemare anche un altro paio di scarpe.
Visto che da qualche giorno sono malinconica e piuttosto insofferente, e che di natura sono una solitaria, ho pensato che due passi in un posto pieno di gente mi avrebbero tirata un po’ su di morale.
Era l’ora di pranzo, ma siccome sto cercando di perdere qualche chilo mi sono mangiata una barretta dietetica al volo, una cosa orribile, gommosa, ricoperta di fiocchi di riso e chissà quali altre sostanze tristi che dovrebbero far disamorare al cibo.
Tutta pimpante e leggera sono entrata nel centro commerciale che era quasi l’una.
Non l’avessi mai fatto.
Un centro commerciale è decisamente un posto pochissimo adatto a una donna  a dieta, senza soldi e di malumore.
Mi sono subito diretta con passo militare verso il ciabattino, ho contrattato la riparazione e il tizio al banco mi ha dato uno scontrino e mi ha detto di passare a ritirare gli stivali dopo mezzora. Due riparazioni, di cui una in giornata, per un totale di ventotto euro.
Non sapendo come impiegare il tempo, mi sono infilata in libreria, cosa che non dovrei mai fare senza aver depositato il portafoglio nelle mani di un tutore inflessibile.
Sono tuttavia riuscita a resistere, facendo appello al buon senso che mi continuava a ripetere che ho una ventina di libri in attesa sul comodino, quando torno dal lavoro sono stanchissima, fino all’estate riesco a leggere pochissimo e che, comunque non avevo a portata di mano nessun titolo imprescindibile e quindi avrei potuto aspettare. Pertanto me la sono cavata solo con sei volumetti di un testo buddista che amo regalare e un paio di libri che mi sembravano veloci, per un totale di cinquantotto euro.
Visto che mi trovavo lì, sono andata a fare un giro e in una vetrina di abiti casual ho visto alcune magliette, di cui avevo davvero bisogno, che mi sembravano carine. 
Così sono entrata, altra cosa che non dovrei mai fare senza avere insieme a me uno stilista che mi suggerisca i colori più furbi da abbinare al mio guardaroba primaverile, che però è costituito prevalentemente da jeans, quindi ci sta sopra un po’ tutto. 
Lì ho eseguito alcuni velocissimi esercizi di respirazione, ho pensato alla bolletta di conguaglio del gas e mi sono limitata a tre magliette con relative canottiere, ordinandone una quarta - dell’unico colore davvero indispensabile- per un totale di centodiciannove euro.
In tempi di vacche grasse ne avrei comperato un esemplare di ogni colore -in totale erano dieci- perciò sono uscita sentendomi in colpa per aver speso comunque troppo, ma allo stesso tempo frustrata per non aver preso di tutto e complessata perché mi sento troppo grassa per provare gli abiti che mi piacerebbe indossare.
Una donna di malumore, che si sente in colpa perché ha speso troppo e si vede grassa e bruttissima, sola in centro commerciale all’ora di pranzo, cosa mai potrebbe fare? 
Lo giuro, ho cercato di combattere, sono anche andata in edicola a comperare il giornale decisa a sedermi a leggerlo su una panchina proprio di fronte a una colossale svendita di mobili, ma quando ormai ce l’avevo fatta, quando ero quasi fuori pericolo, sulla mia strada si è palesato un Old Wild West, con la sua insegna luminosa e il suo sublime odore di patatine fritte che si spandeva nell’aria, più invitante e irresistibile del canto delle sirene.
Lo giuro, ho traccheggiato un sacco davanti al menu, ho cercato ogni possibile difetto dei vari piatti - l’Apache con troppi cetrioli, il Dakota con il bacon che poi mi resta sullo stomaco, il Navajo senza cipolla, il Toro Seduto con troppi hamburger- ma non ce l’ho fatta.
La carne è debole: il paninazzo orrendo da fast food è una delle tentazioni di fronte alle quali perdo il controllo.
Il pensiero di quel bolo di sapori amalgamati di carne, cipolle, formaggio e salse che colano, accompagnato da una montagna di patatine fritte sintetiche e da una birra fredda mi provoca una sorta di regresso al peggior stato adolescenziale e sono incapace di reagire.
Sono entrata nell’Old Wild West ostentando una fierezza regale, ma mi vergognavo moltissimo e mi trascinavo dietro tutto il peso della mia infamia. 
Mi hanno messa a sedere in un tavolino da due, di fianco a una diligenza con le panche, sotto un mostruoso lampadario realizzato con una ruota di carro e proprio davanti a una finta testa di bisonte, riuscita malissimo, con il muso da gorilla.
Cercando di dare a intendere d’essere lì per puro caso e un po’ controvoglia, ho ordinato un Navajo -a cui ho fatto aggiungere della cipolla- le patatine e una birra. 
Nell’attesa ho finto di leggere con interesse la pagina culturale di Repubblica, ma il bisonte mi ha impedito di concentrarmi.
Sempre con nonchalance ho spazzolato il piatto, compresa la salsa western, un misto di maionese e polvere da sparo che ho subito sentito mi avrebbe raso al suolo buona parte dei villi e dei tentacoli dell’apparato digerente. 
Ho tracannato la birra in fretta sotto lo sguardo di disapprovazione del bisonte, poi sono andata a pagare la modica cifra di dodici euro, uscendo poco dopo con il marchio del disonore sul cuore e un panino enorme sullo stomaco.
Ho ritirato le scarpe, che grazie al cielo erano pronte, e me ne sono tornata a casa, ripetendomi che sono una mente labile, un’invertebrata, un‘anima molle.
Questa gita mi è costata complessivamente duecentodiciassette euro, almeno un chilo ripreso dei due e mezzo che ho perso faticosamente e un brufolo nella solita visibilissima posizione sul mento.
In più mi sento così cretina che il malumore, se è possibile, è peggiorato.
Però quelle patatine con la salsa western...




venerdì 22 marzo 2013

Arnaldo Biserani pittore: un contributo


Il 19 marzo 1963, per un tragico incidente nello studio di Lucio Fontana, moriva il pittore e poeta Arnaldo Biserani (1905-1963) artista che con la sua opera segna un punto di svolta nelle avanguardie romagnole di metà del Novecento.

La giovinezza - Arnaldo Biserani nasce a Lugo di Romagna nel 1905, quarto dei sette figli di Severino Biserani e Argentina Bernabè.  
A otto anni perde la madre, che muore di parto nel dare alla luce il fratello Ultimo, ma viene cresciuto dalle amorevoli cure della sorella maggiore Adua (1899-1978), alla quale resterà legato tutta la vita e che costituirà un punto di riferimento costante di tutta la sua poetica.
Allo scoppio del primo conflitto mondiale si trasferisce presso lo zio Errico a Porto Corsini, dove prequenta l’oratorio della Parrocchia e dove Don Dante è il primo ad accorgersi della sua spiccata sensibilità poetica e pittorica. 
Il religioso insiste quindi perché il piccolo Arnaldo venga mandato in seminario per proseguire gli studi, ma il padre stenta a credere che quel ragazzino allegro e incline alla burla possieda uno speciale talento. Sarà proprio Adua a convincere Severino Biserani a lasciare che Arnaldo si rechi a Cervia, presso il convitto dei Padri Scolòpi, dove resterà fino a due anni dopo la fine della Grande Guerra. 

Gli esordi artistici - Dal 1926, nonostante abbia iniziato a lavorare presso la piccola azienda ittica di famiglia, il Biserani frequenta alcuni coetanei della zona, con i quali forma quello che in seguito verrà chiamato “Il cenacolo di Porto Corsini”, gruppo di giovani con velleità artistiche che ruota intorno a Torcuato Sòlas, eclettico pittore, scultore e incisore aperto alle nuove correnti artistiche europee. Frequenta per qualche mese anche Eros Amadori e il circolo della cosiddetta Scuola di Brisighella, che abbandona per contrasti artistici con gli ideali futuristi e avicoli di quell’ambiente intellettuale. 
É in questo contesto che il Biserani conosce Dello Feltraro (Cervia, 1909-1992), con il quale instaura una profonda amicizia e un importante sodalizio artistico, che durerà più di un ventennio. 
É proprio insieme a Dello Feltraro che il Biserani ha occasione di conoscere Attila Frustalupi, ristoratore, critico e mecenate, che in seguito curerà tutte le mostre dei due e la commercializzazione delle loro opere.
Frustalupi riconosce il talento dei due giovani artisti romagnoli quando nota una loro opera, un trompe l'œil sulla parete in fondo a una sala del Ristorante “da Romano Al Pescatore” a Casal Borsetti, raffigurante una marina estiva in un giorno di garbino.
Gli anni che seguono sono quindi determinanti per la formazione della sensibilità del Biserani: attraverso la guida artistica e le conoscenze di Sòlas - e sostenuto economicamente da Frustalupi che acquista tutti i suoi dipinti, benché ancora acerbi in confronto ai capolavori che realizzerà in seguito - Arnaldo Biserani può avvicinarsi all’opera dei maggiori esponenti della pittura europea dell’Ottocento e Novecento.

Il carattere e la tragica fine - L’uomo Biserani, così come lo ricordano la sorella Adua e gli amici, era dotato di un carattere allegro e portato alla burla.
Il suo umore si rabbuiava solo se alle dodici e mezza non era ancora pronto in tavola.
La sua risata era inconfondibile e contagiosa, ma molti colleghi lo detestavano proprio per questa indole semplice e giocosa e per i suoi scherzi, di cui spesso erano vittime.
Il gusto per gli scherzi, del resto, gli costò la vita. 
In visita nello studio del collega Lucio Fontana, si nascose dietro una tela con l'intento di farlo spaventare, proprio mentre il maestro la colpiva con una lama affilatissima per uno dei suoi famosi tagli.
La testa di Arnaldo Biserani rotolò, mentre in suo robusto corpo ormai senza vita si accasciò davanti a un impassibile Fontana.

Le opere principali -  Arnaldo Biserani lascia un centinaio di dipinti, tra tele e affreschi. Le sue opere fanno parte principalmente di collezioni private, in particolare della trattoria “Il Vascello” di Cesenatico, dei ristoranti “Il Rombo da Luigi” a Cervia e il già menzionato “da Romano al Pescatore” di Casal Borsetti, oltre ad alcuni capolavori esposti all’Art Museum e al Museo delle Terme del Beato Alessio di Riccione e alla ricchissima raccolta di Frustalupi.
Agli eredi Biserani resta invece prezioso materiale bibliografico: lettere, appunti, taccuini di poesie, schizzi e alcuni disegni di studio per le tele a olio.
Nel 2013, per il cinquantennale dalla morte dell’artista, è stata organizzata a Lugo, sua città natale, una retrospettiva che vede esposte settantacinque delle centosei opere a lui attribuite, tra le quali i celebri dipinti "Mio zio Luganega" (1935), "Natura morta con piadina" (1941), "E pèss” (il pesce, 1945) e  "La solitudine della salsiccia" (1954).

Arnaldo Biserani pittore
La vicenda pittorica di Arnaldo Biserani si snoda attraverso varie fasi, durante le quali l’artista romagnolo sperimenta tecniche e suggestioni di provenienze assai diverse, alla ricerca di un linguaggio che possa sintetizzare il suo obiettivo comunicativo: un’Arte in grado di mediare la tendenza umana verso l’assoluto, ma fruibile e assimilabile nell’immediato da chiunque.
Tutto il suo percorso umano e stilistico volge alla semplificazione dell’impatto visivo del quadro, considerato mero mezzo significante, spogliato di un suo valore in sé, ma nobilitato dalla percezione di chi ne fruisce e dalle emozioni che ne scaturiscono.
É quindi evidente che in questo contesto i primi passi dell’artista muovono nell’ambito degli Impressionisti prima, e della Scuola Francese poi, movimenti  verso la cui estetica il Biserani sente una forte attrazione, e che resteranno alla base dell’ispirazione e della tecnica della sua opera, soprattutto nell’uso della pennellata frequente e nervosa, talvolta al limite del puntinismo, pur con tratti di esasperata modernità.
Di questa fase, che dura fino ai primi anni Quaranta, il primo esempio veramente significativo è rappresentato dal cosiddetto “Trittico dei Pierrò”, costituto da tre olii su tela che gli furono commissionati dalla trattoria “da Romano, al Pescatore” di Casal Borsetti nel 1930, e che ancora fanno parte di questa ricca collezione.

"Pierrò triste", 1930 olio su tela, 
collezione trattoria "da Romano, al Pescatore" Casal Borsetti
"Pierrò allegro", 1930, olio su tela,
collezione privata  trattoria "da Romano, al Pescatore" Casal Borsetti
"Pierrò così così", 1930, olio su tela,
collezione privata trattoria "da Romano, al Pescatore" Casal Borsetti




Per tutto questo periodo l’artista di riferimento del Biserani è principalmente Renoir, del quale il pittore romagnolo condivide la predilezione per la saturazione del colore e i giochi di luce, ma anche nella rappresentazione di temi popolari sono evidenti i punti in comune con il Maestro francese.
E’ proprio nello sperimentare il colore che l’artista di Lugo mette a punto quello che per lungo tempo sarà una sorta di firma delle sue opere: il rosso Biserani, che compare sempre nei suoi quadri e che solo nelle ultime fasi della carriera verrà stemperato in tinte più tenui. 
Questo punto di rosso, pare fosse ottenuto mescolando Salsa Rubra e carminio, mantenuti stabili da un fissatore per baffi e capelli.
Va notato, tuttavia, che nelle opere del Biserani, a differenza di quelle di Renoir, il nudo compare una sola volta, in un dipinto del 1934. Il pittore romagnolo, infatti, aveva fama di grande tombeur de femmes  e dopo la prima esperienza con la modella Nives Biancacci, che fu sua amante fino al 1937, nessuna fu più disposta a posare per lui, neppure la stessa Nives durante la loro burrascosa relazione.

"Nives nell'alba rossa", 1934
tecnica mista
collezione Eredi Biancacci
"Mio zio Luganega", 1935
 tecnica mista,
collezione privata Attila Frustalupi

Questo primo periodo termina però bruscamente nel 1942, con due opere dello stesso anno, che testimoniano il travaglio stilistico del Biserani e preludono alla svolta naturalistica dei suoi temi. 
Da quel momento in poi in nessun quadro compariranno figure umane.
Interpellato dal suo amico e mecenate Attila Frustalupi sui motivi di questa scelta, il Biserani ebbe a dire: “M’sàn stufè: pintèr di òmmen, l'è coma e' càn ad Zaraben che baja a la lona cardend che sia pijda” (Mi sono stancato: dipingere gli uomini è come il cane di Zarabino che abbaia alla luna credendo che sia una piadina). 
L’artista si riferiva certamente al fatto che dipingere esseri umani è sforzo vano, perché non sarà mai possibile cogliere la loro reale essenza.
Resta il fatto che le due tele del 1942, conservate al Riccione Art Museum, sono considerate tra i massimi capolavori del pittore romagnolo. 
Lo stile raffinatamente approssimativo, dai forti contrasti di colore, dalle forme umane appena abbozzate e sproporzionate, si manifesta paradigmaticamente nella "Spiaggia", mentre in “Colazione nel giardino dei Ravaioli” ancora una volta è il dettaglio rosso che ci mostra quanto il Biserani trasfondesse la sua indole allegra e passionale anche in una pittura per molti aspetti malinconica.

"Colazione nel giardino dei Ravaioli", 1942,
olio su tela
Riccione Art Museum 
"Spiaggia", 1942, olio su tela
Riccione Art Museum

Nel 1943 Arnaldo Biserani incontra Balla e Boccioni, dei quali già stava studiando le opere da tempo, restandone affascinato. 
I due maestri del Futurismo avevano già avuto modo di apprezzare alcuni lavori del giovane collega romagnolo, che avevano visto esposti a Porto Garibaldi nella Friggitoria “Zia Rina” e avevano intuito in “Mio zio Luganega” un esempio di quelle sequenze fotogrammetriche tanto care a Giacomo Balla. Entrambi consideravano il Biserani un artista molto promettente.
Da questo incontro scaturiscono alcune opere che mettono a punto il linguaggio che Biserani userà nella sua pittura fino alla morte, definendosi  pienamente tuttavia solo dopo l’incontro con De Chirico quasi cinque anni  dopo.
Questi sono anni di grande creatività, di ricerca di nuove tecniche e di sperimentazione, ma sono soprattutto gli anni durante i quali il Biserani si avvicina definitivamente ai soggetti gastronomici che maggiormente gli sono cari in poesia.
Il Biserani infatti vede nel cibo la reificazione delle aspirazioni e dei tormenti più profondi dell’animo umano, simbolo introiettabile, quindi allo stesso tempo  non-simbolo o simbolismo-negato, dotato di natura ultrareale, in grado cioè di andare oltre la dicotomia corpo-spirito che affligge i suoi contemporanei, e che neanche il positivismo futurista riuscirà a superare, pur nel suo strutturale dinamismo.
Nel bellissimo “Natura morta con piadina” del 1943, già i germi del cambiamento si intravedono, soprattutto nell’uso della pittura su vetro, che nell’esperimento del Biserani doveva servire come espediente per conferire al dipinto profondità e movimento. 

"Natura morta con piadina", 1943
smalto su vetro
collezione privata trattoria "Il Vascello" Cesenatico

Tuttavia l’artista non è più soddisfatto dell’impasto di colore che ancora resta il medesimo dei lavori precedenti e mal si sposa ad un linguaggio rinnovato.
A questo seguono molti dipinti interessanti, tra i quali voglio ricordare “Lombata invernale” e “Pane e friggione”, entrambi del 1944, facenti parte della collezione privata di Demetrio Malavasi. 
Dal 1945 inizia gli studi per la serie dei Rombi, che si apre con il famoso “E pèss” (Il pesce, 1945) un bozzetto eseguito con la sanguigna su carta presso il ristorante “Il Rombo da Luigi” di Cervia. 

"E Pèss" (Il pesce), 1945
sanguigna su carta da frittura
collezione privata ristorante "Il Rombo da Luigi" Cervia

Tra il ’45 e il ’53  Biserani si dedicherà quasi esclusivamente a dipingere rombi, utilizzando varie tecniche ed eseguendo decine di studi sulla fisionomia di questo gustoso pesce di cui è ricco l’Adriatico, ma nel frattempo conoscerà anche Giorgio De Chirico, destinato a diventare suo maestro.


"Rombo in grisaglia", 1948
carboncino su tovagliolo
collezione privata ristorante "Il Rombo da Luigi" Cervia
"Rombo in giallo", 1949
pastello su carta da frittura
collezione privata ristorante "Il Rombo da Luigi" Cervia
"Rombo nella notte marina", 1951
acquerello
collezione privata ristorante "Il Rombo da Luigi" Cervia


È dall’incontro con De Chirico che il Biserani introduce nei suoi dipinti una dimensione metafisica, che tuttavia perde lo straniamento proprio del Maestro, per acquisire nella sua opera la dimensione ultrarealista che gli è propria, solidamente ancorata cioè ad elementi del vivere quotidiano inseriti allo stesso tempo in un contesto in cui sono il vuoto e la luce a rappresentare il concetto di infinito e a testimoniare la distanza emotiva da esso dell’uomo comune.
Il desiderio quindi di non venir meno a quell’ingenua semplicità, a quel linguaggio diretto che costituisce cifra stilistica sia del Biserani pittore, sia del poeta, lo porta ad un rigore estremo nella ricerca dei temi e nei primi mesi del 1954 a una definitiva frattura con De Chirico, verso la cui opera spesso si pronuncerà in modo assai critico. ( “Potrò discutere con lui di pittura solo quando smetterà di dipingere attaccapanni, cià una testa còm una mazòla, al ’fe rid m’i pol, quàl patàca”, dirà ad Attila Frustalupi).
La summa della carriera artistica del Biserani è rappresentata proprio da un dipinto del 1954, universalmente riconosciuto come il suo massimo capolavoro: “La solitudine della salsiccia”, olio su tela, collezione della trattoria “Il Vascello” di Cesenatico.

"La solitudine della salsiccia", 1954
olio su tela
collezione privata trattoria "Il Vascello" Cesenatico

In quest’opera, dietro l’apparente nichilismo del soggetto inanimato, è ancora una volta la luce a testimoniare che invece un’anima esiste, ma è natura stessa della carne: oltre a quella salsiccia, sospesa in un vuoto senza riferimenti di spazio e tempo, altro dunque non c’è.
La salsiccia assurge così a valore universale, ultrareale e al contempo assoluto.
Farà un’operazione simile anche nei bellissimi “Notturno con Cagnina“ del 1957 e “Frittura mista” del 1960, esposti al Museo delle Terme del Beato Alessio di Riccione, senza tuttavia riuscire ad eguagliare l’essenziale perfezione del dipinto del ’54. 

"Notturno con Cagnina", 1957
olio su tela
Museo delle Terme
Riccione
"Frittura mista", 1960, olio su tela
Museo delle Terme
Riccione
       
Negli ultimi tre anni prima della morte riprende gli studi sui rombi, che lo accompagneranno ossessivamente fino ai suoi ultimi giorni.


"Rombo con patate", 1961
pastelli di cera su tovagliolo
collezione privata Demetrio Malavasi
"Il tragico destino del rombo", 1961
acquerello su carta da tavola
collezione privata ristorante "da Romano, al Pescatore" Casal Borsetti
"Studio per la triangolazione del rombo", 1961
carboncino su carta da frittura
collezione privata friggitoria "da Dolfa"
Igea Marina




In molti lavori si assiste anche a una inedita contestualizzazione del rombo, negli ultimi dipinti addirittura coinvolto e stravolto in deformazioni geometriche, come ne “La quadratura del rombo” (1961) e "La cerchiatura del rombo riflesso" (1963), entrambi appartenenti alla collezione privata di Attila Frustalupi. 

"La quadratura del rombo", 1961
olio su tela
collezione privata Attila Frustalupi

"La cerchiatura del rombo riflesso", 1963
matita su carta da frittura
collezione privata Attila Frustalupi

Con queste due opere il Biserani lancia un inclemente j’accuse verso l’esigenza dei suoi contemporanei di trascendere l’estetica a favore dell’effetto emotivo  prodotto dall’opera d’Arte, condotta che l’artista romagnolo considera ambigua e fuorviante.
Sono i suoi ultimi quadri, che a una lettura a posteriori ci appaiono ancora più emblematici.
Quando il critico Ennio Sperindìo gli chiese il perché del rombo, il Biserani rispose lapidario: "E ròmb l'è un pèss che no rènd" (il rombo è un pesce che non rende) alludendo alla quantità di scarto prodotto per sfilettarlo. 
In questa consapevolezza, la sintesi della filosofia pittorica dell'ultimo Biserani, tutta la disillusione di fronte al desiderio che si scontra con l'ultrarealtà metafisica dell'esperienza.

Bibliografia:

Bruno Capello-Franco Piccione "La pittura romagnola del Novecento" Ed. d’Arte Aldo Paletta, Cesena, 2001, pagg. 303-527

Attila Frustalupi "Arnaldo Biserani, l’amico, il pittore, il poeta: un ricordo" Ed. Nuove Tendenze, Faenza, 1974

Milena Tartaglia "Il Biserani e l’estetica del rombo: geometrismi" Ed. d’Arte Aldo Paletta, Cesena, 1996

Demetrio Malavasi-Franco Piccione "L’ultrarealtà metafisica nella poetica del Biserani" Ed. d’Arte Aldo Paletta, Cesena, 1985

"Lo scherzo fatale: Biserani e i suoi contemporanei" a cura di Gianni Lugaresi su FMR, Milano, anno XXI, n.150, febbraio-marzo 2002

Guida Michelin Italia, 1952-2012

Un sentito ringraziamento alla Fondazione Attila Frustalupi per la ricchezza del materiale iconografico messo a disposizione per questo breve saggio.

Per chi desiderasse approfondire la conoscenza del Biserani poeta, raccomando l'illuminante saggio dell'amico e collega Marco Fulvio Barozzi su Popinga, che esce in contemporanea con questo articolo



lunedì 18 marzo 2013

The Art Museum of Riccione


La scelta di una casa per la villeggiatura a Riccione richiede una consumata abilità. 
I riccionesi spesso affittano la propria abitazione, ritirandosi durante l'estate a vivere in cinque o sei persone in un garage, o in minuscole depandances. 
Esistono case invece destinate unicamente alla villeggiatura dei forestieri, e sono quelle che devono essere ricercate: bisogna diffidare da chi propone appartamenti con arredi nuovi, robaccia da mercatoni, coi cassetti che cadono sui piedi ogni volta che vengono aperti con foga, ma cercare case vecchie, con mobilio di recupero. 
Gli arredamenti di queste abitazioni erano già di recupero negli anni Sessanta e Settanta, e ciò che accade frequentemente, e che costituisce il pregio di una casa per la villeggiatura a Riccione, è di trovarsi intorno pezzi di modernariato, mobili degli anni Venti, già orribili allora. 
Eppure, questi arredi, che dovevano essere di pessima qualità già all'epoca del loro acquisto, si rivelano meravigliosamente funzionali nelle case per i soggiorni estivi, in quanto solidi -i cassetti non si aprono, le ante degli armadi restano incastrate- non bisognosi di alcuna manutenzione, resistenti ai bambini terribili innervositi dallo iodio e alle tonnellate di sabbia che vi vengono involontariamente introdotte - che la sabbia, si sa, si nasconde e si manifesta misteriosamente dove meno te la aspetti, anche molti mesi dopo il rientro in città. 
Il mobilio mostruoso delle vere case per la villeggiatura svolge una duplice funzione: far sentire a casa, rilassati e senza l'ansia di pulire e curare i pezzi d'arredo, ma allo stesso tempo conferire all'abitazione un tono di totale estraneità rispetto alla personalità di coloro che vi soggiorneranno per qualche mese, lasciando loro, in questo modo, il gusto della scoperta di particolari e suppellettili che non si sognerebbero mai di introdurre in casa propria. 
La sintesi tra gli opposti dialettici di familiarità/estraneità con l'abitazione riccionese è rappresentata da un sentimento che definirei benessere, cioè un misto di sollievo perché tutto quanto ti sta intorno ti appartiene, o quantomeno appartiene alla tua memoria, e altrettanto sollievo generato dal pensiero che tutta questa accozzaglia di arredi orribili in realtà non ti appartiene affatto. 
La casa che ho affittato quest'anno è assolutamente perfetta. 
Si apre su saloncino col pavimento in linoleum verde marmorizzato, arredato con un soggiorno recentissimo - fine anni Sessanta- costituito da un tavolo rotondo, una credenzina e sei sedie in legno, impiallacciate con una formica che simula le venature di un legno inesistente in natura. 
Un piccolo divano e due poltrone ricoperte da un terribile drappeggio floreale completano il soggiorno, impreziosito inoltre da un mobile con vetrinetta, pessima imitazione di un fine Ottocento. 
Proseguendo, si oltrepassa il disimpegno che porta alle camere da letto e si accede ad un tinello, sulla cui parete di sinistra è appoggiato un altro pezzo della serie del salotto, un mobile da soggiorno con ante, vetrine e piani a giorno, magnifico nel suo genere grazie alla schiena gialla, all'impiallacciatura in finto legno e alle maniglie a cilindretto poste su inserti in metallo satinato. 
In angolo, a destra nel tinello, si può ammirare un esilarante caminetto semicircolare in muratura, che imita talmente bene la muratura stessa, da sembrare realizzato con un altro materiale. 
Il cucinotto è angusto, ma quest'anno ho un frigorifero alto quasi come me e non il solito comodino refrigerato che mi costringerebbe ad una spesa quotidiana. 
Alle stanze da letto e al bagno si accede grazie a un piccolo disimpegno sulla destra del salone. 
La camera dei bambini è arredata in perfetto stile anni Sessanta, con due lettini gemelli, un armadio e un comò con specchiera che ne occupano tutta l'area, costringendo i visitatori a camminare rasente i muri. 
Nella mia camera si può invece apprezzare un trionfo dello stile del ventennio: letto, comodini, comò, armadio e scarpiera, tutto in sedicente radica, con importanti maniglie plastificate ad imitazione ottimistica di avorio. 
Il bagno è piccolo, ma completo, con rivestimento celeste inframezzato qua e là, con discrezione, da preziose mattonelle raffiguranti marine e scene di pesca. 
I pavimenti, eccetto il signorile linoleum, sono tutti in marmiglia ad imitazione di una palladiana, pur con diverse sfumature di colore. 
Quello che ho apprezzato maggiormente nella mia casa di quest'anno è tuttavia l'inestimabile raccolta di tele e oggetti artistici, rara anche per una casa riccionese. 
Visitiamo questo singolare museo. 

Subito sulla destra, entrando, ecco due magnifiche tele del Biserani, entrambe datate 1942, periodo durante il quale l'artista ha attraversato un probabile travaglio stilistico, come risulta evidente dall'analisi comparata dei due notevoli dipinti. 
Il primo, infatti, eseguito tra l'inverno e la primavera del '42, risente fortemente dell'influenza impressionista: si tratta di un olio su tela, raffigurante una colazione all'aperto, nella quale le figure sedute a tavola sono delineate con pennellate nervose, benché la scelta dei colori lasci trasparire la forte influenza dell'insegnamento di Renoir sul Biserani. 



La seconda tela è sempre un olio, realizzato nell'agosto dello stesso anno, raffigurante una spiaggia estiva: la pennellata si fa più ampia e decisa, le figure sono delineate con una leggera deformazione del reale, ma minore staticità, le tinte diventano solari, accese, con forti dominanti rosse e gialle, quasi a voler preannunciare tendenza dell'artista verso il fauvismo. 
Entrambe le tele sono incorniciate da una pregevolissima plastica finemente intarsiata. 



Accanto ai dipinti del Biserani, un'opera importante del Feltraro: "Ritratto del nonno", datata 1963. 
Il volto del vecchio raffigurato in questa tempera risalta di un inquietante pallore sullo sfondo scuro. 
L'espediente pittorico di fasciare il collo dell'anziano e distinto signore con una sciarpa color sanguinaccio, permette di dare risalto alla luminosità azzurra del suo sguardo e di conferire ad esso una singolare intensità. 
Il bellissimo dipinto merita la sobria cornice in legno chiaro e lino con la quale è appeso alla parete. 

Sulla sinistra, in angolo, due riproduzioni di stampe dell'Ottocento: "Le chien bien-aimé" e "Le retour de la chasse" di ambientazione inglese e soggetto venatorio. Sono molto ben realizzate le sagome e gli sguardi dei cani, meno indovinati i caratteri dei cacciatori. 
Ciò che suscita un certo turbamento di fronte a questi due quadri, è la raffigurazione di un'autentica strage di selvaggina, quasi a voler sottolineare il sodalizio dell'uomo cacciatore coi propri cani rispetto alle altre meno nobili creature. 
I colori, sicuramente posteriori agli originali, conferiscono alle due opere una bruttezza non comune. 

Di fronte all'ingresso una serigrafia di Zironi, dal titolo "Un petit peu di chaleur pour Toulouse-Lautrec", raffigurante due signorine seminude accanto ad un gigantesco termosifone. 
La prima delle due è coperta dalla vita in giù dal calorifero stesso, mentre la seconda, che copre il proprio seno e quello della compagna con una piuma di struzzo, ha i fianchi fasciati da una preziosa trina, evidente richiamo al disegno che abbellisce anche gli elementi del vero protagonista dell'opera: il termosifone. Cornice di plastica a imitazione faggio. 

Sotto a quest'ultima opera d'arte si trova una ceramica risalente al tardo-faentino, purtroppo in pessimo stato di conservazione. 

Sulla vetrinetta del salone, nello splendore della sua apertura alare, è posta in bella evidenza un'aquila, apparentemente di gesso, che ad un esame più approfondito risulta invece essere di plastica piena, pesantissima. 
Se lo sguardo del rapace possiede una certa somiglianza col modello naturale, meno riuscite appaiono invece le possenti zampe, aggrappate ad una lastra di roccia in precario equilibrio su altri lastroni rocciosi. 
Terribile e contundente. 

Leggiadro il piccolo barometro bugiardo appeso all'ingresso del tinello, che ha indicato tempo bello durante tutta la giornata di pioggia torrenziale. 

Sul caminetto spiccano due piatti identici in lega di rame brunito, con lavorazione a sbalzo sul tema" Gruppo di case con albero, siepe, montagne sullo sfondo e staccionata". 
Si commentano da soli. 

Veniamo ai quadri del tinello: il primo è una riproduzione in cartoncino di un acquerello, raffigurante un bambino biondo che tiene in braccio un cucciolo di cane. Ai suoi piedi, inspiegabilmente, è deposto un cilindro nero rovesciato. 
Non è chiaro il materiale di cui è costituita la cornice, ma al tatto sembra un impasto di sughero e carbonella. 

Sempre incorniciato con lo stesso materiale, il dipinto più significativo, a mio avviso, di tutta la galleria. 
Si tratta di una riproduzione, sempre su cartoncino, di un olio con soggetto databile tra il Cinquecento e il Seicento, probabilmente della scuola di Velàsquez.
Protagonisti dell'opera una cantatrice discinta, che mostra il seno seduta al tavolo di un'osteria e due uomini, un po' bravacci, un po' mercenari, un po' moschettieri - l'opera è veramente molto complessa. 
Dei due uomini l'uno, quello accanto alla cantatrice, la guarda con occhi concupiscenti, pur indicando con la mano il suo compare, personaggio dall'aspetto più violento, che alza un calice - che a me francamente sembra un modernissimo bicchiere da cocktail- in un simbolico brindisi. 
La donna pare seguire con lo sguardo il gesto ed abbandonare la sua musica come colta da improvviso cedimento amoroso verso l'uomo col calice. 
Quest'ultimo, fatto singolare, sembra avere un'unica gamba destra nella posizione in cui invece dovrebbe trovarsi la sinistra, come si può notare osservando l'allacciatura dell'unico stivale visibile. 
Questo stivale, a sua volta, oltre ad essere evidentemente troppo piccolo per un piede maschile, ha un'allacciatura piuttosto strana, costituita da due spese lingue di pelle che non vengono tenute ferme né da fibbie, né da lacci, come ci si sarebbe potuto aspettare all'epoca, bensì dal velcro che si usa per le moderne scarpe da basket. 
Opera complessa, davvero. 

In alto, in posizione discreta all'uscita del tinello, un cameo : un santino di cartone in stile preraffaellita, grande come un quaderno, incorniciato, che mostra due santi non identificati in atto di adorazione di una Madonna con bambino seduta su un piedistallo, sulla cui base sono incise le parole "Ave Maria" in carattere Times New Roman stampato maiuscolo. 


Nella camera matrimoniale, protegge il mio sonno un dipinto ovale, una tempera su cartone, raffigurante un Cristo dallo sguardo malinconico che reca in mano un cuore alato, sanguinante e cinto di una corona di spine. Di questa sacra immagine colpisce in particolar modo lo sfondo: vicino al Cristo vi sono alcune costruzioni basse che richiamano alla mente la Galilea, mentre più lontano il borgo raffigurato ricorda molto S.Marino. Ancora più lontano, alle spalle del Nazareno, si vede chiaramente la Tour Eiffel : che voglia simboleggiare l'universalità del messaggio cristiano? Niente male anche la cornice, impreziosita da un rosone di ghiande. 

Dulcis in fundo la camera dei bambini: è lì infatti che si trova l'opera più importante di tutta la galleria. 

Sui letti è appeso un piccolo smalto su vetro con l'immagine di una Madonna elegantissima che alza un velo su un bambinetto grasso deposto su morbidi cuscini di raso: operetta minore, di scarsissimo interesse, specialmente perché situata nella stessa sala alla cui parete di destra è appeso un mirabile crocifisso in peltro dorato, da me battezzato il "Cristo sulla braciola". 
Un giovane Gesù, femmineo e macilento, è infatti inchiodato mani e piedi ad una sorta di enorme spuntatura di maiale, come sacrificato, nella sua sofferente frugalità, all’indifferente opulenza della tradizione gastronomica emiliano-romagnola. 
Non so chi possa essere l'autore di un oggetto simile, ma dalla bruttezza dell'oggetto stesso traspare la genialità perversa del suo artefice. 

Mio fratello, che ha recentemente visitato e apprezzato la galleria, mi ha tuttavia fatto rilevare che in una simile collezione di inestimabile valore non si spiega l'assenza di un pezzo classico, quale la Torre di Pisa realizzata in conchiglie. 
In effetti si tratta di un fatto strano e di una lacuna che, per amore dell'Arte, mi sono sentita in dovere di colmare personalmente. 


domenica 17 marzo 2013

Ragù for dummies


Ammetto che si tratta di una debolezza, ma ogni tanto mi vado a leggere in rete le ricette dei piatti tipici bolognesi, quelli che ho visto preparare in casa fino da quando ero bambina e che anch’io cucino ormai da una vita.
C’è sicuramente una forma di supponenza, quella di chi sente di appartenere a una ristretta cerchia di eletti che certe ricette le conoscono da sempre.
A dire la verità non si può neanche parlare di vere e proprie ricette, è più corretto piuttosto riferirsi a conoscenze di un sapere così antico e così radicato, da avere perso le tracce  di quella volta che le abbiamo imparate.
Il ragù bolognese è senza dubbio la specialità per la quale questo discorso vale più che per qualsiasi altro piatto.


Leggere la ricetta del ragù mi diverte moltissimo, ho sempre l’impressione che si parli di qualcosa d’altro rispetto a quello che ho sempre fatto o mangiato io,  quello che vedevo preparare dalla mamma, o dalla nonna, o da Carmen - la mia amatissima dada, o da mia suocera, o da mio marito: tutti ragù meravigliosi, tutti diversi, tutti veri ragù bolognesi.
C’è una distanza enorme tra la ricetta formalizzata e quella casalinga, data senza dubbio dalla pratica, da un bagaglio di lunga esperienza e dal gusto personale che rendono la seconda irripetibile da chiunque non ne sia l’originario creatore.
Alla ricetta formale mancano l’amore e la cura che ciascuno di noi mette nella preparazione, non c’è traccia di quel tocco che rende ogni ragù diverso dall’altro, e che non è assolutamente possibile individuare.
Esiste una ricetta ufficiale del ragù, depositata dal 1982 presso la Camera di Commercio Industria Artigianato e Agricoltura di Bologna da parte dell’Accademia Italiana della Cucina, e personalmente consiglio di seguirla solo la prima volta - se non conoscete qualche bolognese che ve la racconti o vi mostri come si fa-  poi buttatela e cominciate a metterci del vostro. 
Indubbiamente con la ricetta il sugo vi verrà benino, ma non molto diverso da quelli che si comprano confezionati o da quello che all’estero usano per condire gli spaghetti: un ragù standard, senza personalità, dignitoso ma senza guizzo di genio.
Per inciso, già che ci sono: gli spaghetti al ragù sono un’eresia, e non voglio aggiungere altro, perché la sola idea di un simile uso improprio di uno dei sughi più buoni del mondo, accoppiato contro natura con una delle paste più buone del mondo, mi offende.
E visto che mi voglio togliere un altro sassolino dalla scarpa, desidero essere molto chiara circa l’uso della pentola a pressione per preparare il ragù: se lo fate costituitevi, è un reato.
Certo, potreste avere l’impressione che sia venuto benissimo e che non si avverta alcuna differenza tra il vostro ragù e quello preparato con il procedimento tradizionale -e forse potreste anche avere ragione- ma dentro di voi dovrebbe premere un profondo senso di colpa per avere mistificato, per avere guardato solo al risultato eludendo il rituale, incuranti di quell’ingrediente prezioso in cucina che è la pazienza, importante quanto la buona qualità degli ingredienti.
Il ragù bolognese è frutto di una liturgia ben precisa, che per i non religiosi chiamerò algoritmo -rappresentabile anche con un diagramma di flusso, a voler essere  proprio pedanti sull’approccio scientifico.
Da noi  si dice: “Il ragù va custodito”. 
É una verità di profonda saggezza, che lascia intendere come questo sugo non possa vedere la luce da cuochi distratti, frettolosi, poco motivati: se occorrono minimo tre ore, per quel tempo è necessario dedicarsi al ragù. 
Certo, nel frattempo si possono svolgere anche altre faccende, ma devono essere poco impegnative e non sottrarre al sugo la necessaria concentrazione e le cure indispensabili: va guardato, rigirato, assaggiato, amato per tutto il tempo.
Tre ore sono il minimo e poche storie. Se poi sono quattro è anche meglio.
Mio figlio, che potrebbe lavorare come assaggiatore ufficiale di ragù bolognese, a metà cottura comincia a provarlo con il pane - a dire il vero si fa dei veri e propri panini-  e poi esprime il suo autorevole parere. 
Dopo un paio d’ore di cottura di solito è: “ Buono, è già buono così, anche se è giovane. Quando sarà finito sarà ottimo”.
Normalmente torna dopo un quarto d’ora, si fa un altro panino, commenta ancora scuotendo la testa compiaciuto e chiede: “Tra quanto sarà pronto?”
“Un’ora o due”- rispondo io.
Il profumo che impregna la casa addolcisce l’attesa, ma allo stesso tempo la rende struggente, tuttavia mio figlio non manifesta alcun segno di protesta, non un cenno di impazienza: sa che è così, sa che la perfezione di un ragù richiede tempo.
La ricetta ufficiale enumera gli ingredienti riferendosi alla carne in etti, unità di misura sconosciuta in casa mia: da noi si ragiona sempre in chili.
Con due chili e mezzo di carne mi vengono tre barattoli grandi di ragù, che il più delle volte ripongo in parte nel caveau del freezer, per ogni evenienza. 
Quando ne ho bisogno lo faccio scongelare, poi lo riscaldo con un po’ di latte ed è come nuovo.
Uso la carne di manzo migliore, che faccio macinare apposta, e ci faccio sempre aggiungere una piccola parte di salsiccia per renderlo più saporito; poi, in ordine di apparizione, finiscono nella grande casseruola: olio e burro, o lardo, sedano carota e cipolla, vino rosso, triplo concentrato di pomodoro, brodo granulare, passata di pomodoro, sale, latte. 
Gli ingredienti vanno aggiunti uno alla volta: prima il soffritto, poi si fa rosolare la carne, poi si mette il vino rosso e comincia la prima ora di attesa -finché il fuoco lento non avrà fatto assorbire tutto il vino- poi il concentrato di pomodoro diluito nel brodo - e si aspetta- poi casomai la passata se piace il ragù più rosso- e ancora attesa- infine il latte -e via ancora ad aspettare, sempre mescolando, sempre assaggiando ogni tanto, sempre verificando che il sale sia giusto e la carne non faccia grumi.
Tre ore minimo, e va custodito.
Non è solo il sapore che ci dice che è pronto.
Il ragù finito ha un profumo e un aspetto che non ingannano, che sanno parlare al cuore del suo genitore, il solo che possiede quella specifica sensibilità che permette di comprendere se quello è il sugo perfetto, della giusta consistenza a seconda che si intenda utilizzarlo per condire la pasta, o le lasagne, o la polenta.
Io lo faccio così, è la mia ricetta personale, e come ho già detto è diversa da quella di ogni bolognese che prepari il ragù secondo la sua personale ricetta.
Va detto che ciascuno è convinto di essere depositario del sommo segreto sapere, non accetta critiche e non sente ragioni su procedimenti diversi, nella monolitica convinzione che il proprio ragù sia il migliore di tutti.
Ovviamente si tratta di un errore, perché il ragù migliore di tutti è il mio.


domenica 3 marzo 2013

La Truzzeide- cap.4: Solo chi ha il caos dentro di sè può generare una terrazza


A meno che non si tratti di una installazione permanente o di un opificio en plein air di sperimentalismi dadaisti, la terrazza del Truzzo è quanto di più rappresentativo della teoria del caos mi sia dato di conoscere.
Prima dell’arrivo del Truzzo credevo che le tre massime espressioni del disordine fossero la mia cabina amadio, il ripostiglio dell’ingresso e il cassetto della cucina che abbiamo chiamato the last beach perché contiene tutto ciò che in casa sfugge a qualsiasi tentativo di classificazione, perciò è sempre l’ultimo posto dove andare a cercare gli oggetti introvabili altrove - e se non sono nel cassetto last beach li diamo per persi.
Dopo aver visto la terrazza del Truzzo, tuttavia, mi sono resa conto che anche attribuendo elevatissimi livelli di entropia ai posti che ho menzionato, anzitutto in ciascuno di essi è possibile individuare alcune macro-categorie di elementi appartenenti al medesimo campo semantico, in secondo luogo il disordine segue una sorta di mappa lineare di tipo ricorsivo, prevedibile, benché in grado di evolversi all’infinito se non si procede periodicamente a porre fine al ciclo.
La terrazza del Truzzo no: ciò che vi fa bella mostra di sé non possiede alcuna logica, è del tutto imprevedibile e si evolve in uno spazio di fasi dotato di estrema libertà secondo orbite inafferrabili, che sembrano convergere ora qua, ora là in punti della terrazza che rappresentano attrattori più che strani. 
Direi proprio stranissimi.
Si tratta infatti di un sistema complesso, nel quale le singole parti - cioè l’accozzaglia di mobiletti, oggetti e attrezzi vari che vi sono depositati- sono interessate da interazioni non lineari, locali, di breve raggio d'azione, che provocano cambiamenti nella struttura complessiva, mutando talvolta anche la loro originaria destinazione, il tutto in modo così imprevedibile da consentire alla scienza solo di rilevare dette modifiche, senza però poter formulare previsioni certe sullo stato futuro del sistema- terrazza-del-Truzzo considerato nella sua totalità.
A partire dalle interazioni tra i singoli componenti del sistema, capita di frequente che emerga un comportamento globale non previsto dallo studio delle singole parti, per cui improvvisamente, da una disposizione apparentemente caotica, per esempio di tubi di ferro, teli, fili di plastica, emerge per qualche tempo un gazebo, che ben presto si trasforma in una struttura che assomiglia a un ultraleggero, ma che probabilmente viene usata come ripetitore FM. 
Semplificando, e cercando di definire le condizioni al contorno, si può ricavare il seguente modello, basato su un sistema di equazioni differenziali:


Il modello però non funziona che d’inverno, quando gli oggetti sulla terrazza sono in numero molto ridotto rispetto alla bella stagione e risultano visibili dalla mia posizione privilegiata.
Da un punto di vista filosofico, la terrazza del Truzzo può considerarsi riproduzione emblematica del cambiamento inerente a qualsiasi esistenza fenomenica, è l'allegoria dell’impermanenza, ma allo stesso tempo possiede una dimensione patafisica, in quanto raccolta di eccezioni che disgregano qualsiasi affezione a modelli ordinari di terrazze.
Infine, se la rappresentazione mentale corrispondente al significante terrazza ci riconduce a luoghi dai quali è possibile godere di vedute dall’alto -di affascinanti panorami urbani come di spettacoli naturali- è bene sapere che la terrazza del Truzzo è situata a un piano rialzato, si affaccia su un cortile interno e gode di una magnifica prospettiva sulle porte automatiche di alcuni garage. 
E’ inoltre completamente circondata da palazzi, non altissimi, ma pur sempre stabili di due o tre piani. 
Sulla terrazza sono assiepati anzitutto sette armadietti di plastica, di dimensione, colore e foggia diversa, che non ho mai visto aprire, ma che hanno assunto svariate disposizioni, sia in orizzontale, sia in verticale, sia in una sorta di emiciclo di dolmen. 
Su di essi si sono alternati tinozze, scatoloni, palette, attrezzature da spiaggia, provviste confezionate, scarpe, una strana turbina, uno pneumatico, alcuni tubi di diversa lunghezza, una pompa da bicicletta, una pompa da canotto, dei cappelli, stivali di gomma, rubinetteria varia, un anemometro artigianale, talune pedane, un triciclo, un’antenna parabolica, un porta parrucche, un trasportino per animali, una piccola arnia e altre cose che non ricordo. 
Tutto questo- vorrei sottolinearlo- sopra i mobiletti, poiché la terrazza del Truzzo sviluppa caos tridimensionale.
Altra struttura stabile è un divano, di stoffa, di quelli imbottiti, da interno. Se piove viene coperto, se nevica forma un tumulo e tocca spalare per liberarlo. 
Il terzo elemento fisso è un dondolo, che tuttavia non viene usato perché non dondola. Non gli vengono messi neanche i cuscini d’estate. Credo che abbia una funzione decorativa, o venga utilizzato come stendino supplementare, oltre ai due che già ci sono di serie.
Ci sono inoltre due tavolini, sei sedie che recano il logo di un ristorante cinese, due o tre secchi, una pala, un rastrello, dei tubi innocenti, svariati giochi del Truzzino, un ombrellone, un barbecue di metallo con carrello, dei mattoni, un decespugliatore, una casina per uccelli -l’unica cosa che dovrebbe stare in alto, invece è sul pavimento- delle scope, un comodino, un asse da stiro e un attaccapanni a stelo.
Questo per quanto riguarda la dotazione standard, che ovviamente varia a seconda del clima e della stagione e non ha una posizione fissa. 
A questa si aggiungono elementi in transito, sulla cui natura è lecito fantasticare secondo l’indole e l’esperienza di ciascuno: se siamo in grado di pensarli, essi prima o poi si manifestano sulla terrazza del Truzzo, in una continua strabiliante epifania.
In estate la terrazza assume una fisionomia affatto particolare grazie al gazebo, del quale mi riservo di parlare nel dettaglio più avanti. Anticipo solo che sotto il gazebo viene sistemato un televisore, con tutti gli accessori del caso.
E’ chiaro che la gestione della terrazza è estremamente impegnativa e tiene occupato il Truzzo quotidianamente, quali che siano le condizioni atmosferiche.
La manutenzione ordinaria si concentra soprattutto in un turnover degli oggetti sopra gli armadietti e nella disposizione diversa dei materiali più leggeri, forse  in un onesto tentativo di mettere ordine, che tuttavia sortisce il curioso effetto di incasinare sempre di più. 
Alcuni pezzi finiscono in garage, ma per liberare lo spazio necessario ad accoglierli, quelli che sono in garage vengono spostati in terrazza: è così che compaiono improvvisamente degli sci, un canotto, una scatola di attrezzi, delle taniche di olio da motori, dei rotoli di tela cerata e dei pattini roller.
Nei cambi stagionali si assiste invece alle manutenzioni straordinarie, durante le quali viene modificata la disposizione degli armadietti, orientato diversamente il divano, spostato il dondolo e vengono allestiti, a seconda dei casi, o una zona pranzo, o un deposito di oggetti temporaneamente dismessi dalla zona pranzo. 
L’impianto elettrico viene messo a norma allo spuntare delle prime gemme in primavera e disinstallato con le prime piogge autunnali, in coincidenza con gli equinozi, benché i festoni natalizi restino appesi tutto l’anno.
La logica truzza vuole che su una terrazza di una quarantina di metri quadrati, invero occupata per buona metà da armadietti, divani e paccottiglia varia, non ci sia neppure un vaso di fiori.
In tutto questo avvicendamento, tuttavia, c’è un unico oggetto che non viene spostato mai: si tratta di una sorta di anfora etrusca, non molto più grande di un bollitore d’acqua, posta quasi al centro della terrazza.
Non so se venga usato come pluviometro empirico, o se rappresenti un’offerta rituale a qualche divinità del Valhalla, ma è come se esprimesse una sorta di ombelico, un fulcro energetico, un simbolo di stabilità in mezzo al delirio.
Devo ammettere che anche per me, ogni volta che mi affaccio e mi si palesa uno scenario nuovo sulla terrazza del Truzzo, la presenza di quel vaso è ragione di serenità, perciò è su di esso che mi concentro, lasciando i mobiletti, il divano e tutto il resto sfocati sullo sfondo.

 -continua-

<Trattandosi di opera di fantasia, ogni riferimento a persone esistenti o a fatti realmente accaduti è puramente casuale>

Desidero ringraziare il mio Brother in Blog, Marco "Popinga" Barozzi, per l'indispensabile contributo nella descrizione del comportamento caotico del sistema-terrazza-del-Truzzo e per lo sviluppo della relativa equazione. In matematica sono una capra, lui invece è uno scienziato vero, oltre che un ottimo scrittore.