martedì 29 gennaio 2013

Lucifero


Cadde. 
Senza fragore d’asfalto, né contorsione di metallo, cadde muto e inesorabile incidendo come una lama il guscio della terra. 
Non fu paura, non furono vittoria né sconfitta, non vi fu battaglia. 
Cadde piegando i fili d’erba come vento di gennaio, di freddo e di silenzio, senza ripensamenti, scivolando attraverso l’aria stupita. 
Libera caduta di fuoco e sangue, consapevole, desiderata euforia di precipizio. 
Cadde fiero nel suo manto di domande, necessario, altero, regale, ardente nello sguardo, palpitante nelle vene. 
Corpo di maestosa bellezza e spirito a lungo abbeverato alla fonte del bisogno di conoscenza, sfidò ribelle ed impudente la norma altissima che sola può dare certezza e pace, divenuto finalmente divino rendendosi umano. 
Non era sua la compiutezza, non gli apparteneva l’ordine perfetto: suoi erano i quesiti, le soluzioni oscure, gli enigmi, i labirinti senza uscite, l’amore che rende malleabile il ferro, il dolore che spezza in frammenti di cristallo. 
Sapeva che non avrebbe mai più trovato armonia e che il suo canto sarebbe divenuto perpetua dissonanza, ma troppo forte fu la fascinazione dell’incognita sorpresa che il difetto avrebbe potuto portare alla sua esistenza. 
Cadde, dannando la sua progenie al destino che scelse per lei, costringendo la sua stirpe in catene a dissodare a mani nude il terreno nella speranza che solo lo scavare a fondo potesse portare alla risalita. 
Si persero le certezze, tranne quella di sapere ogni sforzo vano. 
Allora furono le guerre, la fame e la bramosia, fu spezzata l’innocenza, insinuata la colpa negli animi puri e l’indifferenza in quelli incapaci di vibrare di dubbio. 
Cadde e fu abbagliante splendore e buio di lunghe notti senza stelle. 
Furono sentieri insicuri dal labile tracciato che riportavano a se stessi, furono tentativi di voli verso le irraggiungibili mete descritte dall’utopia. 
Cadde e conobbe il bisogno di appagamento dei sensi, la voluttà della carne, quell’attimo in cui il piacere rinnova la vertigine della caduta. 
Conobbe il godimento, l’effimera felicità, la nascita, la morte, la putrefazione. 
Imparò la gioia degli attimi rubati, la sofferenza di quelli che gli furono sottratti, le aspettative di lunghi giorni infruttuosi. 
La distante purezza dalla quale si era affrancato con insolente audacia, divenne impudicizia, indecente familiarità con le miserie profane, insoddisfazione, esaltata aspirazione di rinnovare in terra la bellezza celeste che aveva rinnegato. 
Macchiato con l’onta del mancato pentimento, gli furono inflitte memoria e immaginazione, perché non dimenticasse, o potesse rivedere in sogno, quanto aveva perduto. 


Eppure non provò rimpianto, mai. 
Si dissetò con il sangue delle sue stesse ferite e con gli umori del suo ventre, si nutrì di speranze e di esse cibò i suoi figli, pretese amore con smania disperata di reietto e ricevette amore infiammato ed ebbro. 
Ideò parole per raccontare la sua storia, trovò pietre, foglie, cera e carta per scriverla a coloro che l’avrebbero proseguita mentre già i vermi divoravano le sue viscere. 
Cadde e fu vita, terribile, splendida, irrinunciabile vita. 


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