martedì 29 gennaio 2013

Lucifero


Cadde. 
Senza fragore d’asfalto, né contorsione di metallo, cadde muto e inesorabile incidendo come una lama il guscio della terra. 
Non fu paura, non furono vittoria né sconfitta, non vi fu battaglia. 
Cadde piegando i fili d’erba come vento di gennaio, di freddo e di silenzio, senza ripensamenti, scivolando attraverso l’aria stupita. 
Libera caduta di fuoco e sangue, consapevole, desiderata euforia di precipizio. 
Cadde fiero nel suo manto di domande, necessario, altero, regale, ardente nello sguardo, palpitante nelle vene. 
Corpo di maestosa bellezza e spirito a lungo abbeverato alla fonte del bisogno di conoscenza, sfidò ribelle ed impudente la norma altissima che sola può dare certezza e pace, divenuto finalmente divino rendendosi umano. 
Non era sua la compiutezza, non gli apparteneva l’ordine perfetto: suoi erano i quesiti, le soluzioni oscure, gli enigmi, i labirinti senza uscite, l’amore che rende malleabile il ferro, il dolore che spezza in frammenti di cristallo. 
Sapeva che non avrebbe mai più trovato armonia e che il suo canto sarebbe divenuto perpetua dissonanza, ma troppo forte fu la fascinazione dell’incognita sorpresa che il difetto avrebbe potuto portare alla sua esistenza. 
Cadde, dannando la sua progenie al destino che scelse per lei, costringendo la sua stirpe in catene a dissodare a mani nude il terreno nella speranza che solo lo scavare a fondo potesse portare alla risalita. 
Si persero le certezze, tranne quella di sapere ogni sforzo vano. 
Allora furono le guerre, la fame e la bramosia, fu spezzata l’innocenza, insinuata la colpa negli animi puri e l’indifferenza in quelli incapaci di vibrare di dubbio. 
Cadde e fu abbagliante splendore e buio di lunghe notti senza stelle. 
Furono sentieri insicuri dal labile tracciato che riportavano a se stessi, furono tentativi di voli verso le irraggiungibili mete descritte dall’utopia. 
Cadde e conobbe il bisogno di appagamento dei sensi, la voluttà della carne, quell’attimo in cui il piacere rinnova la vertigine della caduta. 
Conobbe il godimento, l’effimera felicità, la nascita, la morte, la putrefazione. 
Imparò la gioia degli attimi rubati, la sofferenza di quelli che gli furono sottratti, le aspettative di lunghi giorni infruttuosi. 
La distante purezza dalla quale si era affrancato con insolente audacia, divenne impudicizia, indecente familiarità con le miserie profane, insoddisfazione, esaltata aspirazione di rinnovare in terra la bellezza celeste che aveva rinnegato. 
Macchiato con l’onta del mancato pentimento, gli furono inflitte memoria e immaginazione, perché non dimenticasse, o potesse rivedere in sogno, quanto aveva perduto. 


Eppure non provò rimpianto, mai. 
Si dissetò con il sangue delle sue stesse ferite e con gli umori del suo ventre, si nutrì di speranze e di esse cibò i suoi figli, pretese amore con smania disperata di reietto e ricevette amore infiammato ed ebbro. 
Ideò parole per raccontare la sua storia, trovò pietre, foglie, cera e carta per scriverla a coloro che l’avrebbero proseguita mentre già i vermi divoravano le sue viscere. 
Cadde e fu vita, terribile, splendida, irrinunciabile vita. 


domenica 27 gennaio 2013

Appartenenza


Come Pollicino, lascio sui miei passi briciole di pane perché guidino il mio ritorno a casa, ben sapendo, tuttavia, che i passerotti le mangeranno ed io mi perderò.

La mia casa è il centro di una ragnatela di rapporti, bisogni, opportunità, ma potrebbe anche essere altrove senza cambiare nulla. Non le appartengo, non provo per i luoghi in cui sono nata e cresciuta un amore particolare, forse perché non sono nata e cresciuta in un solo luogo: io sono in viaggio.

Da sempre vivo in viaggio, con gli occhi affascinati dalle cartine dell’atlante, con l’immaginazione che crea allegorie della mia irrequietezza, in mezzo ad uno stormo di uccelli migratori, coi sensi allertati da brevi istanti altrove, e sia benedetta la vita che mi ha donato la curiosità, e la fame, e la sete, che non si placano mai, portandomi ancora più lontana anche quando sono già lontana.

Appartengo alla strada, spirito zingaro, vivo tra le anse dei fiumi, affacciata sulle sinuose geometrie delle coste, nel silenzio immenso delle montagne, papavero tra il grano delle pianure, nebbia prima del tramonto sull’oceano, fragore magnetico di una cascata.

Abito dietro le finestre bordate di azulejos, nell’intimità intuita attraverso il leggero tessuto di una tenda, appendo ad ogni balcone di ferro battuto una vita e una storia.

Di fronte al mare sono biologa, cernia, corallo e onda; nella savana, elegante guerriero Masai, giraffa che corre dondolando il magnifico collo, silenziosa leonessa del Serengeti che frusta l’aria con la coda, lago rosa di fenicotteri. 

Aquila sulle montagne, ma anche condor, ara colorata nelle foreste pluviali, colibrì sovrano di un minuscolo mondo, grido di gabbiano in volo nel cielo di ogni porto.

Attraverso la storia nelle cattedrali e nei castelli, e sono pellegrino, cavaliere, o serva della gleba che dissoda la terra con le mani, ed anche la meraviglia del bambino che osserva sapienti scalpelli scolpire rosoni e portali. 

Sono il gioco gioioso delle scimmie tra le pagode indiane, appartengo al suono di una preghiera, che fa vibrare di energia liberata lo stesso corpo nutrito con burro di yak.

Ritrovo le mie forme barocche sulle tele di Rubens, i miei umori nel cielo della Delft di Vermeer che mi viene incontro, i miei spettri tra i corvi di Van Gogh, la mia etica ferita dalla Storia nel Guernica, come nel martirio di San Sebastiano di Mantegna.

Respiro i muri di Praga misteriosa, di Lisbona dolente, di San Pietroburgo avvolta nei fasti. 

Quanti oceani ho solcato con la fantasia clandestina, quante guerre, quanti amori, quanti orrori impregnano le pietre di ogni collina, di ogni bastione, di ogni umile, regale o divina dimora.
Quanta vita ho vissuto in ogni viaggio.

A questo appartengo, senza patria e senza tempo, senza specie o sesso, pulsante di sangue o tonante di tempesta, sono gioia, rabbia, passione e saudade, sono parto di perenne stupore. 

Chiusa in un corpo, prigioniera di un numero limitato di giorni, sono libera.



Tramonto sull'Atlantico, visto dalle coste del Portogallo: i colori sono reali.
Poi ci si chiede perché ci rimane il cuore...


sabato 19 gennaio 2013

Ma il cuore non è mai pronto


Erano tre mesi che me lo sentivo ripetere: “Può essere domani, tra una settimana come tra un anno, ma non potrà durare. Comincia a preparare il cuore”.
Ma il cuore non è mai pronto ad affrontare la morte, neanche se vedi la sua presenza fredda che si impadronisce ogni giorno sempre di più di qualcuno che ami.
Non è pronto, anche se tutti conviviamo con la morte e facciamo finta di niente finché qualcosa non ci costringe a riflettere sulla nostra piccola precarietà.
Ci ho provato a prepararlo, ma quando è venuto il momento di prendere una decisione ho visto quanto era fragile il mio cuore e l’ho sentito andare in pezzi.
Prendere una decisione sulla vita di un altro essere è straziante, è una responsabilità che comunque vada farà sentire in colpa. 
Ci si chiede se non sarebbe stato meglio farlo prima, o se sia davvero il momento giusto, quello nel quale il sottile confine tra la vita e il “non è più vita” è stato superato.
Ci si chiede, come dice mia figlia, se nel momento in cui sopraggiungerà la morte non ci sia, forse, chissà, ancora qualcosa per cui vivere un minuto, un’ora o un giorno di più e non si stia privando qualcuno di qualche piccola gioia sconosciuta che potrebbe venire, forse, chissà.
Per questo si convive, spesso davvero troppo a lungo, con il dolore di chi ami e la morte che gli cammina accanto, con la stessa indifferenza con la quale ogni giorno della vita ignoriamo la nostra natura mortale, eppure scrutando come di nascosto ogni possibile segnale che ci dia ragione per continuare a rimandare una decisione, quasi a sperare che la morte sia clemente, che venga da sé per un accidente e che ci colga di sorpresa spazzando via ogni responsabilità e ogni dubbio.
Non è pronto il cuore a vedere una creatura splendida, buona e pura, che non può parlare e che sta soffrendo. Le domande gliele devi leggere negli occhi, nei comportamenti, o in uno smarrito vagare alla ricerca di pace.
Devi capire quando il contatto con il calore della tua mano è ancora una piccola gioia per quale vale la pena vivere un giorno in più, quando la ciotola del cibo segna ancora uno dei momenti più belli di una giornata, quando il venirti a cercare è quel suo consueto starti tra i piedi o una richiesta di aiuto.
Come fa un cuore a prepararsi a questo?
Perché ogni morte, anche mentre la si aspetta e si cerca di prepararsi al suo arrivo, richiama tutte le altre che l’hanno preceduta, e allora il dolore, il pianto, l’incapacità di superare la paura e allo stesso tempo l’egoismo che ci portano a rimandare e a sperare che una fatalità ci assolva, tutte queste cose sono troppe tutte in una volta e il cuore non è mai pronto.
Però viene il momento in cui si vede che negli occhi di quella creatura si spegne la luce e che bisogna mettere da parte paura ed egoismo, perché amare significa preservare la dignità della vita di chi soffre, che sia un animale, o anche una persona.
Se ho sbagliato, se ho aspettato troppo, o troppo poco, è a questi motivi, piccoli, umani e meschini che lo devo imputare, all’inadeguatezza di fronte alla silenziosa sofferenza di uno splendido gatto rosso per il quale ieri sera, insieme ai miei figli, ho fatto una scelta straziante, ma con tutto l’amore di cui il mio cuore non pronto è stato capace.
E che nessuno dica che era solo un gatto.



Lucifero
 4 aprile 2004- 18 gennaio 2013



venerdì 11 gennaio 2013

The neverending mappazza


Da quando sono rientrata a scuola dopo le vacanze natalizie, ho pranzato tre giorni a scuola.
Fin dal primo giorno mi sono accorta che avrei dovuto affrontare la catarsi dopo i banchetti natalizi a base di tortellini, brasati, arrosti e favolosi dolci, ma non avrei mai creduto che il contrappasso sarebbe stato così spietato.

Lunedì ci hanno servito dei quadrucci in brodo vegetale -dove per brodo si intendeva acqua sciapa- e delle polpette di verdura che si fermavano a metà dell’esofago formando un tappo; martedì è stata la volta di un piatto di maccheroni in bianco, inodori, insapori, incolori e della consistenza della malta per l’edilizia, seguiti da un sedicente hamburger immerso in una gelatina rossa -che ci han detto essere pomodoro- e da un purè semiliquido; giovedì ci hanno presentato un risotto con zucca biologica, costituito da un unico bolo giallo, e una triste coscia di pollo accompagnata da un fango di fagioli cannellini irriconoscibili. La mia collega, che aveva dieta in bianco, ha avuto come contorno delle patate bollite che nuotavano nell’olio.
Nessuno di questi piatti è stato servito a temperatura che si potesse definire almeno “tiepida”.
Mi sono alzata da tavola sognando uno sfilatino alla mortadella, con quella forma di appetito non saziato che è sempre diretta conseguenza di questi pranzi orribili. Per un attimo ho avuto nostalgia, non tanto di una pietanza gustosa a caso, della quale certi cibi spengono anche il ricordo, ma piuttosto di uno di quei deliziosi menu da ospedale, il classico: minestrina in brodo di pollo, paillard e bietola lessa.
Ho dato un’occhiata a quanto ci riserva la mensa per tutto il mese e mi sono resa conto che sarà durissima. 
Nella mia ventennale carriera mi sono chiesta sempre se le dietiste che elaborano i menu scolastici -sono sempre donne, non si sa perché- non siano in realtà una sola persona incarognita con l’esistenza.
Non saprei come spiegarmi altrimenti questo accanimento a nutrire dei poveri bambini, in una delle più determinanti fasi formative della loro vita, con accostamenti del tutto irrazionali di cibi ugualmente disgustosi.
C’è qualcosa di efferato nei menu scolastici, qualcosa che sfugge alla comprensione dei più e che lascia supporre un disegno più ampio, diretto a condizionare le giovani generazioni, abituandole alla deprivazione di uno dei più entusiasmanti piaceri della vita: il buon cibo.
Nel buon cibo c’è un contatto emotivo tra chi cucina e chi mangia, un nutrimento che non riguarda solo il corpo, ma anche quella parte dell’anima che si raggiunge attraverso i sensi, quindi queste povere creature vengono educate all’anaffettività gastronomica. 
Forse qualcuno ha previsto che ci attenderanno terribili carestie, quindi meglio prepararsi subito a farsi piacere gli arbusti, le bacche e, in mancanza di selvaggina, la plastica degli imballi (quest’ultima soluzione sarebbe tra l’altro interessantissima, perché garantirebbe anche lo smaltimento di una buona parte dei nostri rifiuti).
E’ vero che una certa dose di responsabilità ce l’ha la cucina, visto che gli stessi piatti, cucinati bene, o anche solo cucinati nel senso autentico del termine, potrebbero forse risultare commestibili. 
Si deve quindi anche considerare il problema dalla prospettiva della realizzazione dei manicaretti, ma indubbiamente è sull’ideazione del menu e sulle direttive impartite per metterlo in pratica che si concentra l’aspetto più scabroso.
Quale mente perversa può partorire, infatti, un trionfo degli amidi come quello proposto con la fatale accoppiata riso/fagioli? 
Giovedì già nell’immediato dopo pranzo abbiamo avuto i primi caduti sul campo, due bambini che hanno detto di avere mal di pancia e si sono fatti venire a prendere dai genitori. 
Verso le tre del pomeriggio è stato uno stillicidio di: “Maestra, posso andare in bagno?”, proprio mentre tentavo di spiegare alla classe le splendide flessioni per genere e numero dei nomi. Quando rientravano in classe, però, i piccoli sembravano  non solo alleggeriti, ma persino più interessati alla materia.
Mi domando ogni volta che tipo di donna possa essere la dietista, quella che immagina, per un martedì a caso, un pranzo che prevede come primo la pizza e come secondo prosciutto cotto e patate. 
La pizza, per dirla tutta, è un rettangolo di gommapiuma sul quale è stesa un’ipotesi di pomodoro, disseminato qua e là da chiazze di mozzarella secca: ai bambini piace da pazzi, il che mi dimostra che il piano sta riuscendo alla perfezione e non distinguono più né i sapori, né le consistenze.
Per fortuna la pizza è così ambita dai vari plessi, che solo un paio di scuole al mese rientrano tra le fortunate che se la aggiudicano e, a quanto pare, a noi capita assai di rado perché siamo il plesso che inoltra il maggior numero di lamentele, spesso condite con feroce sarcasmo.
I reclami non sono un nostro divertimento, però, ma un atto di denuncia che la nostra etica impone.
Vogliamo parlare, per esempio, dei tortiglioni con ragù di verdure, eufemismo che maschera una poltiglia adesiva violetta di non identificati vegetali? O delle polpette fritte al forno, ossimoro culinario dall’impanatura in truciolato? 
Ogni tanto, sul menu compare il miraggio di poter avere per pranzo le lasagne, sempre però indicate con una possibile alternativa nel caso non dovessimo essere sorteggiati per questo prestigioso premio. 
Lasciamo stare che non posso immaginare le lasagne della mensa se non come un esempio di eresia, la sola parola però ci illude e si rivela uno scherzo di cattivo gusto, visto che ci viene servita sempre l’alternativa, che di solito è rappresentata da tagliatelle al ragù di bovino, la cui carne, macinata grossolanamente, sembra possedere la straordinaria qualità organolettica di aggregarsi in pochi bocconi di discrete dimensioni e singolare compattezza, ma di non condire affatto.
Talvolta ci vengono proposti formaggi, soprattutto stracchini e ricottine in confezioni monoporzione. Peccato però che le confezioni non si riescano ad aprire. Duecentocinquanta bambini affamati, vocianti come una curva dello stadio, e altrettante confezioni di formaggino che non si aprono: è un momento agghiacciante. Quando vediamo che per secondo c’è la ricottina, siamo pronti al peggio. Ogni volta che viene aperta, del resto, ci fa rimpiangere di non aver desistito dal farlo.
É singolare poi notare come nel nostro menu vi sia un’evidente discrepanza tra significanti e significati: se infatti il nome della portata potrebbe evocare immagini mentali che si riferiscono alla nostra esperienza, o alle nostre conoscenze, la realtà smentisce sempre ogni aspettativa. Pare che vi sia totale mancanza di un codice alimentare comune tra noi, la dietista e le cucine. 
Che si tratti della vaghezza con cui i piatti vengono descritti, o che la causa sia  da imputare all’imprecisa realizzazione degli stessi poco importa, resta il fatto che solo nel caso delle minestre di legumi -unici cibi discreti che ci vengono serviti- esiste una coincidenza tra il nome, l’idea e la realtà.
La nostra dietista tuttavia, con la connivenza della cucina, esprime tutta la sua indole sadica con le verdure. 
Se escludiamo i brevi periodi dell’anno scolastico in cui abbiamo a disposizione i fagiolini, che peraltro ci vengono propinati bolliti fino alla depressione e deliberatamente sconditi, è previsto l’uso unicamente di alcune declinazioni di cavolo e insalata, talvolta anche insieme, di patate - servite solide, liquide o anche gassose- di fagioli e, soprattutto, del piatto principe di tutto il nostro menu: le carote filanger.
Ci vengono somministrate almeno due volte la settimana, e già alla fine di ottobre non ne possiamo più. 
È vero che fanno bene alla vista e che a giugno saremo tutti pronti per una favolosa abbronzatura, ma il rischio di andare in overdose da carote è reale.
Come inizia l’anno scolastico, a me viene la gastrite, che mi passa durante le vacanze di Natale e si ripresenta puntuale al rientro. 
Mi rendo conto benissimo che portare a scuola un salame e farmi un panino mentre i piccoli hanno davanti un piatto di filanger sia diseducativo, oltre che crudele, quindi sono con le spalle al muro. Potrei mangiare a casa verso le undici e mezza di mattina, ma anche non mangiare mai con loro è diseducativo.
Protestare non serve, mandare avanti i genitori nemmeno, non resta quindi che mandare giù il boccone indigesto -nel senso letterale- e resistere, resistere, resistere: in fondo mi mancano solo quattordici anni alla pensione.

<Trattandosi di opera di fantasia, ogni riferimento a persone esistenti o a fatti realmente accaduti è puramente casuale>

Grazie a Silvia, la mia adorata collega, che mi ha suggerito il titolo.



martedì 8 gennaio 2013

Il Bel Paese


Ho corretto le verifiche di Geografia della mia IV elementare.
Di solito procedo così: faccio domande aperte, lascio che scrivano quello che vogliono su una traccia, concedo loro una mattinata intera e, per evitare inutili spargimenti di sangue, non valuto gli errori di ortografia, né tantomeno la sintassi a dir poco audace e la punteggiatura usata a scopo puramente decorativo.
Il compito verteva unicamente sulle montagne italiane, dieci pagine del libro in tutto, piene di figure, assegnate come studio prima di Natale, ripassate insieme, già più volte verificate oralmente.
Ce l’ho messa tutta per consentire loro di ottenere risultati molto brillanti ed alcuni infatti mi hanno presentato ottimi lavori, completi, esaustivi, chiari. 
Altri hanno fatto il minimo sindacale, ma ho largheggiato con simpatici più che hanno reso le sufficienze più accattivanti.
Un piccolo gruppo, invece, mi ha consegnato elaborati del tutto deliranti, non tanto perché non abbiano capito la materia oggetto di verifica -ché quella si studia e si guarda sulla cartina, peraltro bellamente esposta in classe nello splendore dei suoi 140 x 100 cm. - ma perché non avendo studiato nulla, e quindi non sapendo nulla, hanno inventato e, laddove sapevano poco, hanno frainteso le quattro idiozie in croce scritte sul libro.
Quello che ne è emerso è un quadro nuovo dei nostri spettacolari monti, rilievi che tutto il mondo ci invidia. 
O forse ci invidiava.

Sull’orogenesi delle nostre catene montuose, ho saputo che esistono due tesi: la prima, con un fondamento geologico più solido, le ha viste formarsi per via di una crosta terrestre che sbatte su un’altra crosta terreste
Ovviamente quando due croste si scontrano si rompono, si formano dei detriti e si formano zone sismiche caratterizzate da vulcani, che altro non sono se non montagne che non hanno ghiacciai perché c’è la camera magnetica al loro posto e le loro parti sono: camera magnetica, eruzione e percorso magnetico. Quando un vulcano erutta, allora si forma una zona sismica. 
Che fine abbiano fatto le montagne non vulcaniche in aree geologicamente più stabili, non è dato di saperlo, ma riconosco in queste confuse spiegazioni un tentativo di descrivere un fenomeno invero assai complesso. 
La seconda tesi invece è di tipo climatico: la montagna si forma con la pioggia e la grandine. Si forma quando questi due elementi cadono su di lei e la fanno a punta.
In questo caso, va da sé che non esistono solo montagne con l’erba, ma anche quelle con la neve, perché quando fa freddo e le montagne sono in alto, la neve si deposita sopra la punta, con buona pace degli appassionati di sci che si possono scordare i pendii innevati e le lunghe piste: o sulla punta, o niente, e sempre che le montagne siano in alto, perché se le montagne sono in basso non se ne fa nulla. 
Le montagne vulcaniche invece sono quelle che all’interno hanno del fuoco, quindi si possono chiamare anche vulcano, quindi si può anche chiamare vulcano il vulcano che dentro di sè ha la camera magmatica. Non oso pensare a come si possa chiamare un vulcano che non si possa chiamare vulcano.
Veniamo alle Alpi: esse altro non sono se non delle specie di colline, soltanto che sono molto più in alto e un pochino hanno la punta. 
Le Alpi hanno i ghiacciai, che mano a mano scendono giù con le rocce del terremoto, portando con sé detriti e macerie. 
Questi ghiacciai si sciolgono, quindi scende l’acqua che prende una posizione a V nelle zone fluviali e a U nelle zone glaciali.
Il clima delle Alpi è mite, ma anche influenzato dal freddo.
Pare che sulle Alpi la comunicazione con i paesi dell’aldilà avvenga attraverso i valanchi.
A consolidare questa macabra vocazione alpina, mi si aggiunge anche che le Alpi segnano la fine dell’Italia, il che conferisce loro un’aura sinistra. Mi immagino la mesta Sappada, il funereo borgo di San Candido, la lugubre Courmayeur...
Sia da monito per gli escursionisti: non imboccate mai un sentiero che rechi il numero 13 per raggiungere una baita in territorio straniero, potrebbe essere un valanco per l’aldilà.
Conforta comunque sapere che la via di comunicazione dalle Alpi alla città è per via di tubi e passaggi, un’uscita di sicurezza, tra l’idraulico e l’esoterico, dalle fatali vette.
Le Alpi però sono anche utili. 
Anzitutto hanno molta allevazione: per esempio la flora è muschio e guerce; le foreste di conifere sono sempre state una risorsa importante perché lì si producono mobili. Pianti un pino nano ed ecco bell’e fatto un comodino, cresce un larice recando con sé i conseguenti comò, da un abete secolare escono come d’incanto canterani Luigi XVI, ovviamente originali.
L’allevazione prevede anche mucche e bovini, le pecore che fanno i pascoli, i porcali di bovini e pecore. 
Se d’estate il bestiame viene portato all’alpeggio, invece in inverno gli animali stanno nelle stalle e lì ci possono essere i derivati del latte, generi di conforto per la stagione rigida. 
Le Alpi hanno anche degli hotel costruiti con il legname e i turisti vengono lì per il panorama e per mangiare. 
Tecnicamente le Alpi si dividono in Orientali, Occidentali e Meridionali.
L’Appennino è invece costituito da montagne altissime arrotondate, che però fanno molte burrasche di neve oppure di terra ed è per questo che fanno molti parchi nazionali.
Se non fosse chiaro, mi si dice anche che le Alpi sono più basse degli Appennini che hanno molti ghiacciai. Questo spiega perché all’inizio l’Appennino era disabitato, poi col tempo l’uomo cominciò ad abitarlo e così si costruirono molti agriturisfi, dove si può imparare ad andare a cavallo e dove viene accolta gente per assaggiare i tipici piatti di montagna. Sono infatti numerose le tracce di agriturisfi appenninici risalenti al Neolitico
Tutti sanno che gli Appennini costituiscono una sorta di spina dorsale d’Italia, ma forse può essere sfuggito che essi sono suddivisi in Settentrionali, Meridionali ed Occidentali, iniziano dal Colle di Cadibona in Liguria e terminano al passo dell’Aspromonte in Croazia. 
Fanno un giro un po’ lungo, ma sono davvero suggestivi, specie perché l’Appennino Meridionale va da Firenze al Colle di Cadibona, quindi, se tanto mi dà tanto, quello che finisce nell’Aspromonte Croato è l’Appennino Occidentale.
C’è però chi conclude il suo viaggio attraverso le nostre belle montagne appenniniche affermando, con un sussulto di orgoglio calabro, che l’Italia è costituita dall’Aspromonte.
La nota dolente sono le risorse: infatti sugli Appennini l’abbondanza di pascoli è povera, ma non dire per gli alberi da frutto (allora non diciamolo). 
E’ pur vero che vi avvengono molti vulcani, ma se non fosse per i terrazzamenti, col fischio che si potrebbero coltivare molti ortaggi, come patate, carote, segale e avena. 
Il turismo, del resto, è sempre più ampio e vi si coltivava i cereali, crano e orzo.
Crea una certa tensione il fatto di sapere che sugli Appennini, mano a mano che si sale, è sempre. 
Dove le Alpi sono mortifere, gli Appennini sembrano essere mistici, una sorta di salita verso l’infinito.
Vanto delle nostre montagne sono comunque i Parchi Nazionali.
E’ bene sapere subito che Parchi Nazionali marini in montagna li ha solo la Liguria, quindi possiamo sentirci sereni per la foca monaca delle Alpi Marittime che si trova in habitat protetto, ma non altrettanto si può dire per i coralli delle Retiche, minacciati dal fatto che in questi parchi in quota alcune persone fanno le immersioni sott’acqua per fotografare i pesci, benché ci siano le guardie forestali che tengono d’occhio. E’ vietato dare cibo agli animali, ucciderli, non si può buttare carta o spazzatura perché può danneggiare l’acqua, e non si può andare in motoscafo perché si può disturbare i pesci. 
Nei parchi Nazionali c’è molta flora, per esempio molti fiori, ma ci sono anche molti animali: capricorni, armellini, dondole, guffi e spolvieri. 
Mi sono documentata sullo spolviero: è un uccello bellissimo dotato di un morbido piumaggio, vittima della caccia indiscriminata da parte della multinazionale Swiffer e del bracconaggio di casalinghe vanesie che se ne servono per pulire casa. Spolveramento non sostenibile.

Dopo aver letto questi capolavori di fantasia geografica, se da un lato sarei molto curiosa di trascorrere le vacanze sui nostri monti, magari facendo immersioni o guardando guffi e spolvieri con il binocolo mimetizzata da pino mugo, dall’altro un po’ li temo.
Aspetto di sapere cosa mi scriveranno a proposito di mare e colline prima di prenotare.


27 gennaio 2012
<Alcuni amici l'hanno già letto, ma ieri sono tornata a scuola dopo le vacanze di Natale ed ero così giù di morale, che mi sono andata a rileggere questo. I bambini sono persone così sorprendenti, che a pensarci bene faccio il lavoro più bello del mondo.>



domenica 6 gennaio 2013

Il sottile erotismo delle lasagne


Qualche tempo fa ero a pranzo con un amico che mi raccontava di una sua conoscenza, avvezza a pratiche erotiche piuttosto bizzarre. 
Confidenza per confidenza ci siamo messi a parlare di tutte le stranezze che avevamo sentito in merito, in un crescendo di comune stupore.
Entrambi abbiamo convenuto di non avere l’interfaccia per certe cose, nel senso che non ci sarebbero venute in mente neanche pensandoci, e già facevamo fatica a crederle possibili persino quando ce le avevano raccontate le persone direttamente coinvolte.
Sia ben chiaro che nella nostra conclusione non c’era alcun giudizio, e non si può certo dire che fossimo, allora come ora, dei bacchettoni.
Eravamo solo abbastanza sconcertati, per il solo fatto di avere una visione del sesso e dell’erotismo piuttosto distante da certi vezzi strani. 
Più semplice, ecco.
Per cercare di spiegarcelo l’un l’altro siamo dovuti ricorrere a similitudini, e visto che avevamo davanti una terrina di sugo di carne nel quale inzuppare dei crostini di pane, e un tagliere di culatello di Zibello, a me è venuto in mente che la cosa che più mi ricorda il sesso-  quello fatto bene- sono le lasagne.
Parlo di quelle bolognesi originali, non le variazioni sul tema in chiave vegetariana, che sono new age come iscriversi a un corso di tantra.



Le lasagne bolognesi sono erotiche già concettualmente.
Giacciono orizzontali, comodamente adagiate in una teglia, senza le pretese acrobatiche dei timballi, prive della vocazione all’ammucchiata degli sformati, lontane dalla frigida eleganza monoporzione dei tortini.
Nascono da una fusione tra due elementi chiave, la pasta e il ragù, cementati dall’attrazione, rappresentata dalla besciamella.
A differenza di ogni altra pasta, ripiena o meno, nella lasagna la pasta e il condimento non sono più separate dal dualismo io-tu, ma diventano un sublime “noi”, pur mantenendo la loro identità.
Questa fusione rappresenta la natura stessa della lasagna, esiste solo quando strato su strato si crea la perfetta unione, quando gli ingredienti si integrano, agiscono l’uno in funzione dell’altro.
Il ragù, sanguigno e carnale, accarezza la pasta, accogliente e morbida. La sua natura di maschio si stempera nel velluto della besciamella, che lo addolcisce, lo rende delicato, generoso, attento.
La pasta, dal canto suo, si corica in attesa e si lascia sommergere, pronta a stringere nell’abbraccio dei suoi larghi drappi quel sugo profumato, e a esserne permeata.
E prima di tutto questo, ciascuno dei due si prepara all’incontro.
Lui stufandosi per ore fino a trovare il giusto vigore: non la mollezza di chi frequenta la consistenza spugnosa di una polenta, ma neppure la rigidità di chi ha a che fare con le fluttuanti tagliatelle, mutevoli per forma e umore.
Lei, figlia della terra, impastata fino a esaltarne la natura femminina frutto di grano e uova, si immerge tutta intera in un bagno bollente per divenire più arrendevole.
Ancora non si sono incontrati, ma già sono attratti l’uno dall’altro, poiché si riconoscono dai profumi che cominciano a impregnare l’aria calda della cucina.
Si danno appuntamento in una teglia, dove lei si stende lasciva e ammicca, lanciando tacitamente un invito che lui accetta, gonfio di desiderio.
Ed è qui che interviene la magia, la scintilla che da sempre ha originato quanto di più bello e naturale possa accadere tra due elementi, siano essi diversi, o della stessa natura.
Nelle lasagne questo incanto avviene per opera della besciamella, entità che appartiene sia alla pasta, sia al ragù, crema delicata che non vive mai di vita propria, che esiste solo quando tra due ingredienti la pulsione a unirsi è così forte.
La besciamella compie il miracolo, li vincola, li armonizza, li induce a tenersi stretti già da questi momenti preliminari, li invita a cercarsi e a scoprirsi mentre insieme affrontano il lento ed estenuante calore del forno.
Quando ne escono, dopo ore, pasta e ragù sono trasfigurati, ma uniti per sempre. 
Si lasciano deporre su un piatto, avvinghiati in un abbraccio sensuale.
Sale un ricciolo di fumo profumato: è un aroma voluttuoso che lascia intuire la passionalità dell’amplesso, che ancora si protrae finché la forchetta non affonda, con il fianco, attraverso gli strati che si lasciano tagliare come burro, sfiniti.
E in quel momento, con impudicizia, la besciamella cola. 
Calda, densa, fluida.

L’esperienza delle lasagne bolognesi, se sono fatte bene, sublima la fantasia.
Non c’è bisogno di mistificazioni da nouvelle cuisine, di sperimentalismi da chef, di ricerca di gusti esotici, o di sapori forti.

No, decisamente: lasagne, solo semplici, gioiose lasagne.



sabato 5 gennaio 2013

Apologia del congiuntivo


Nel mio lavoro sono costretta a lottare quotidianamente contro l’inconsapevolezza linguistica delle nuove generazioni, lotta impari di per sé, poiché contestualizzata in un’epoca di acronimi, abbreviazioni e informalità, per non parlare dei media, che brutalizzano la lingua in modo spregiudicato.
Non voglio parlare di grammatica, benché possieda un fascino tutto suo, ma vorrei invece discutere della “filosofia” che si cela in ogni lingua e condividere la mia accorata difesa del congiuntivo e della sua ineffabile bellezza, a prescindere dai significanti e dalle loro rigorose flessioni.
Un po’ per celia, un po’ per non morir…

Si dice che l’indicativo sia il modo della certezza, quello attraverso il quale si esprimono affermazioni che non lasciano margine a dubbi o supposizioni. 
Non posso, né voglio dubitarne, ma mi permetto di considerarlo un modo un po’ didascalico di prendere atto di ciò che è accaduto nella varia distanza del passato, o che sta accadendo nel presente. Sul futuro avrei invece parecchio da opinare, perché se è vero che all’indicativo affermo con sicurezza, mi sembra paradossale, nonché pretenzioso, non solo avere due futuri, ma soprattutto esprimere con tale monolitica certezza qualcosa che ha da venire, senza mostrare il benché minimo possibilismo rispetto alla solita eventuale tegola che potrebbe sovvertire i nostri futuri, per quanto anteriori.

Il condizionale pecca di umiltà pelosa, non fa niente per niente, è cortese al limite del lezioso, ma in realtà è veramente cinico, o forse solo molto realista. 
Che sia frutto di esperienza di vita, o semplicemente di scaramanzia, l’uso del condizionale è purtroppo necessario e questo lui lo sa, perciò pone sempre paletti, spesso insormontabili. 
Chi non ha viaggiato nel tempo e nello spazio a cavallo di un condizionale? Chi non è stato altro da sé, più bello, più ricco, più tutto, deformandosi riflesso nel suo specchio? 

Se non altro il condizionale ha buon gusto, quello che manca all’imperativo, che nonostante i “per favore” non riesce a mascherare la sua supponenza, la sua abitudine alla gerarchia. Tant’è che non prevede che si diano ordini a noi stessi, se non con uno sdoppiamento schizoide che ci porta a essere al contempo prima e seconda persona – e mi riferisco solo al singolare, perché se ci si imperasse alla prima e seconda persona plurale si tratterebbe di delirio di onnipotenza. 
Talvolta la necessità di ristabilire un ordine o di interporre una distanza di ruolo, impone l’imperativo, ma ora se ne fa un uso troppo amichevole, che penalizza le forme di cortesia.

Non parliamo dei modi indefiniti, per natura vaghi, freddi, impersonali, tra i quali il più odioso è certamente il participio, che si fa bello nei tempi composti di porre solo la sua firma, lasciando il lavoro sporco ai poveri ausiliari, che a forza di flettersi per tutti avranno l’artrosi. Arriva lui, il participio, un bellimbusto che al massimo si lascia aggettivare, con il suo presenzialismo irritante, e dà il significato all’azione: davvero non c’è giustizia. 
L’infinito è infingardo, si fa forza dell’essere la forma base e non si preoccupa affatto di sovvertire ogni possibile previsione di coniugazione dei verbi irregolari o difettivi. Il suo ruolo primario sarebbe quello di fornire una radice, ma ha velleità classicheggianti e inganna. Un brutto individuo.
Il gerundio, poveretto: in un certo senso mi fa pena, viene sempre bacchettato dai correttori automatici e dai manuali del bel dire, accusato di ridondanza, pesantezza, bizantinismo.

Ma veniamo al congiuntivo, l’oggetto della mia passione, il modo del dubbio.
Anzitutto è il modo delle ipotesi, realizzabili oppure ormai relegate nel mondo dell’impossibilità, ma anche in questo secondo caso, dove andrebbero la ricerca e la scienza senza ipotesi? 
Se è vero, come credo sia, e come diceva Einstein, che sono le ipotesi a determinare ciò che dobbiamo osservare, quale progresso sarebbe stato possibile senza congiuntivi?
Il congiuntivo è poi il modo dei desideri, anche di quelli così distanti da diventare sogni o illusioni, ma stimola la fantasia, ci porta dove è possibile tutto e il contrario di tutto, dove si può nominare ogni nostro più intimo segreto. Come potremmo desiderare senza congiuntivi?
Il congiuntivo è soprattutto il modo del dubbio, quello che ci permette di metterci in discussione, di porci le domande e cercare le risposte da angolazioni diverse, non dal semplice punto di vista oggettivo dell’indicativo, non da quello vincolante del condizionale, non da quello prescrittivo dell’imperativo. 
E’ maieutico, ci guida attraverso un percorso di conoscenza di noi stessi e del mondo tenendoci per mano e ponendo le giuste domande, le sole in grado di portarci alle giuste risposte. 
Possiamo conoscere senza dubitare? E possiamo dubitare senza congiuntivo?
In ultimo è elegante, permette un fluire morbido di discorsi e pensieri che, in sua assenza, risulterebbero stridenti se non addirittura barocchi. 
E’imprescindibile, se vogliamo capirci e farci capire, se vogliamo mostrare i nostri limiti e i nostri punti di forza, se vogliamo evitare l’arroganza e la falsa umiltà, se vogliamo comunicare consapevolmente, ben sapendo che la forma è il biglietto da visita che consente l’accesso alla sostanza.

(Questo è solo un piccolo gioco da bambina che ama smontare e rimontare la lingua come i mattoncini del Lego, ma c’è tanto amore, quello che mi è venuto da una lunga, assidua ed intensa frequentazione con l’Italiano, lingua della quale vorrei non andasse perduta l’armoniosa bellezza)



mercoledì 2 gennaio 2013

Collezionismo


I collezionisti sono compulsivi, si sa.
Sono anche molto pazienti. 
Sono certamente curiosi.
Godono - a torto- di pessima fama, sia nella psicanalisi che nella letteratura.
E’ vero che sono dei solitari, a tratti monomaniaci, inclini a ritirarsi nella loro passione, ma allo stesso tempo sono desiderosi di condividerla, perché l’euforia di ogni nuova scoperta, o della riscoperta di qualche pezzo che si possiede da tempo, è tale da non poter essere contenuta.
Il desiderio di mostrare ad altri ogni nuovo trofeo di valore è autentico e generoso: non nasce da bisogno di ostentare un successo, né dal tentativo di suscitare ammirazione, né tantomeno da un senso di superiorità che si vuole sbandierare, talvolta per nascondere il contrario di tutto questo.
No, è proprio un atto di amore, in primo luogo verso il pezzo della collezione che si è rivelato in tutto il suo splendore, in subordine verso i destinatari della rivelazione, persone evidentemente meritevoli di quella stima che fa pensare che saranno in grado di apprezzarlo e di entusiasmarsi altrettanto.
La felicità del collezionista è tale da risultare impensabile, dal suo punto di vista, che esista qualcuno che non gioisca altrettanto delle sue scoperte, perciò se nessuno se lo fila, come quasi sempre accade, ci rimane malissimo.
In ogni caso non si smonta, dimentica l’ingratitudine e certamente verrà preso ben presto da un nuovo, incontenibile stato di esaltazione, che dovrà assolutamente condividere.
Il collezionista si ripromette di darsi una calmata praticamente ogni giorno, ma dimentica questo proposito ancora più spesso, gli basta una minima scintilla per dar fuoco alla miccia della ricerca continua, della curiosità insaziabile, del bisogno di trovare qualcosa che gli alzerà il livello di adrenalina e gli permetterà di abbandonarsi ancora a quella impagabile sensazione di essere stato investito, travolto e totalmente catturato da qualcosa che ritiene bellissimo. 
Il collezionista è una persona che ricerca emozioni.
Certo, è difficile pensare che ci si possa emozionare con un francobollo, o con un sottobicchiere da birra, o con un magnete da frigorifero, eppure al collezionista accade e bisogna considerarlo un privilegiato.
Nel mio caso sono privilegiata due volte: io, infatti, colleziono musica.
Quando cominciai, quarant’anni fa, non ero propriamente una pioniera, ma certamente una figlia della mia generazione, una che si giocava le paghette in vinili, o che registrava su cassette i dischi degli amici, scambiando con loro tutto quello che si poteva e che sarebbe stato altrimenti proibitivo acquistare.
Registrare i nastri era una faccenda scomodissima: ci si metteva esattamente il tempo del disco, le cassette si rovinavano, si sbobinavano con niente e per trovare un pezzo bisognava diventare abilissimi con i tasti di avanzamento/avvolgimento veloce, magari segnandosi il minuto esatto dell’inizio e mantenendo il sangue freddo quando lo si mancava sempre di qualche millimetro in più o in meno. Era abbastanza snervante, ma eravamo gente animata dalla passione e con il tempo ci siamo temprati.
Per incidere su nastro una compilation ci si poteva impiegare due giorni.
I vinili, dal canto loro, benché dotati di un calore e una pastosità irripetibile, con il tempo si segnavano e cominciavano a frusciare, benché venissero custoditi con religiosa cura. Non tutti possedevano impianti sofisticati quel tanto da trattare i solchi con la gentilezza che avrebbero meritato; la maggior parte di noi, al contrario, aveva dei giradischi con puntine garbate come zappe.
Il passaggio dal vinile ai CD ci parve rivoluzionario, anche se all’inizio i costi non erano affrontabili, sia per un impianto decente, sia per i dischi stessi.
Quando con i primi pc si cominciò a intravedere la possibilità di masterizzare - che altro non era se non il procedimento più evoluto della registrazione delle cassette- si dischiuse un mondo di possibilità che non avremmo mai osato neppure immaginare.
E non avevamo ancora visto niente.
In ogni caso, al di là dei costi, investire in CD era comunque interessante: si aveva la certezza che il tempo non li avrebbe alterati, occupavano meno spazio rispetto ai vinili, garantivano una purezza del suono che non avevamo mai sentito, pur con impianti di media qualità.
In più, almeno per quanto mi riguarda, c’era tutto il piacere della riscoperta di album che non avevo più ascoltato da anni e anni, visto che i vinili li avevo lasciati tutti a mio fratello, per salvarli dalla potenziale furia distruttrice di due cani, due figli  e svariati gatti.
Il primo disco che ho ricomperato su CD è stato In The Court of The Crimson King dei King Crimson: eravamo agli inizi degli anni Novanta.
Negli anni successivi ho ricostruito quasi tutta la mia discografia originale, prima seguendo la memoria e la pancia, partendo dai pezzi più scontati.
Poi la febbre da collezionista ha preso la forma di un preciso progetto e mi sono procurata un elenco ragionato, una sorta di Bibbia, un dizionario del pop/rock di più di mille pagine, che analizza disco per disco quasi tutta la produzione di più di mezzo secolo. Ho scoperto cose pazzesche, che non avevo mai ascoltato a suo tempo, o di cui avevo perso la memoria.
Più comperavo dischi, più ne avrei comperati. 
Si è cominciato ben presto a presentare il problema della catalogazione e della sistemazione sugli scaffali della libreria: in ordine alfabetico, per provenienza geografica, per genere, per periodo?
Scaffali stipati in doppio strato, libri che sparivano per lasciare posto, poi un’intera libreria solo per dischi. 
Con i figli che crescevano e alcuni loro amici,  collezionisti in nuce, che venivano in pellegrinaggio, ammessi al santuario al solo patto di estrarre dagli scaffali un disco alla volta e rimetterlo a posto subito al termine dell’ascolto. 
Neanche una biblioteca domenicana aveva regole così rigide.  

Nel frattempo la tecnologia ha cominciato a mettere a disposizione una gran quantità di sistemi per stoccare la musica, per trovarla, per scambiarla, per poterla ascoltare, per portarsela in giro con leggerezza.
Mica come il walkman a cassette, o il lettore portatile di CD, che costringevano a destinare uno zaino intero alla musica ogni volta che si faceva una gita.
YouTube, iTunes, Amazon, Dropbox, Torrent costituiscono la morte sociale di un collezionista di musica: si trova tutto, si può ascoltare tutto, si può condividere tutto, si compera di tutto, semplicemente con la carta di credito,  a costi abbordabili, comodamente seduti alla scrivania, senza alcun ingombro, se non quello di un hard disk -meglio se esterno- che con il tempo diventa ipertrofico: prima bastavano 250 Gb, ora si ragiona in TB.
Senza muoversi da casa, senza avere il tempo neanche di ascoltare con attenzione tutto.
Se vengono gli amici collezionisti a trovarti, sono muniti di chiavette USB, HD, computer. 
Tutto l’armamentario viene sfoderato sul tavolo, scambiato, discusso, ascoltato insieme, in un susseguirsi di consigli e indignazioni: “Ma come, non hai mai ascoltato...?”
Ne seguono nomi sconosciuti ai più, prelibatezze da iniziati, gruppi che vengono dai posti più lontani e un tempo più alieni a certi circuiti di diffusione musicale: Islanda, Polonia, Norvegia, Armenia, o progetti di nuovi guru che il grande pubblico non ha mai neppure sentito nominare.


Negli anni Settanta ci sembravano già estremamente esotici i tedeschi.
Eppure ci sono cose splendide, non è possibile che qualcuno non le conosca, o non le apprezzi. 
E allora via, con la condivisione, sui social network, sul cellulare, via mail.
Il collezionista di musica è tuttavia soggetto a due fenomeni opposti, ma di identica intensità: la mania e la depressione musicale, una sorta di disturbo bipolare del musicofilo.
La mania prende ciclicamente, quando si scopre, o si riscopre, in mezzo alla folla di nomi e dischi rigorosamente catalogati sul computer, con tanto di immagini delle copertine, informazioni di vario tipo e rating, qualcosa che non era stato ascoltato con la dovuta attenzione, o che non si ascoltava più da tempo.
In questi casi si viene presi da un vortice totalizzante: si ascolta solo quello per giorni, a volte per settimane, nella incrollabile convinzione che non si possa trovare di meglio, che non ci sia mai stato di meglio, né che mai ce ne sarà, o che, comunque, la nostra vita in questo preciso momento non abbia bisogno di ascoltare altro.
Si cercano gli amici collezionisti per tentare di coinvolgerli -quasi sempre senza alcun successo, visto che probabilmente sono a loro volta posseduti dal loro demone del momento- o le persone che si ritiene potrebbero apprezzare, e si arriva in molti casi a recare un autentico tormento, o meglio una solenne rottura di palle, magnificando le doti di ciò che si sta ascoltando, con fervore da invasati, sguardo febbrile e/o trasognato, leggera schiuma agli angoli della bocca.
Le manie sono quasi sempre legate in modo ricorrente a particolari artisti, ma  conservano un aspetto imprevedibile e a volte riguardano nuove scoperte. Questi ultimi casi sono i più pericolosi, perché alla smania di condivisione si somma anche una perniciosa tendenza all’evangelizzazione.
Ai periodi di furore maniacale si alternano momenti- per fortuna rari- di insofferenza: allora si scorre tutta la libreria del computer in cerca di un’ispirazione, che non arriva. 
Le ragioni sono inspiegabili, ma la più probabile è una sorta di saturazione, un’overdose a cui segue il collasso.
All’inizio ci si prova ad ascoltare qualcosa e ci si illude, di quando in quando, di aver trovato ciò che ci rispecchia in quel momento, ma tutto diventa insopportabile dopo poche note, nulla pare poter emozionare e ci si ritrova a pensare di avere passato anni ad immagazzinare una quantità spropositata di Gb di noia.
Un collezionista di musica in stato di depressione è qualcosa che fa male al cuore. 
Con il peggiorare dei sintomi, si aggira per casa incapace di qualsivoglia ideazione o iniziativa, passa davanti alla libreria, guarda i dischi, ne estrae qualcuno a caso e lo accarezza nella speranza di trarre giovamento dal contatto, ma al solo pensiero di ascoltare qualcosa prova un senso di nausea.
Si può restare anche giorni in questo stato pietoso, si arriva persino a dimenticare a casa l’ iPod, tale è lo stordimento.
E’ come se il Nulla entrasse da uno spiraglio della vita e la invadesse, la divorasse, la costringesse al silenzio, privandola dei colori.
Un collezionista di musica che non ascolta musica è un involucro vuoto, privato delle sue emozioni.
In questi casi l’unica possibile strategia è un defibrillatore.
Ci sono brani, o artisti che per ciascuno di noi svolgono questa funzione, bisogna solo imparare a riconoscerli e tenerli a portata di mano, come salvavita, e quando la situazione diventa drammatica, farsi violenza e usarli.
Io, per esempio, ho i Traffic, i Led Zeppelin e i Clash.
“Uno, due, tre... libera!”
Mister Fantasy.
Funziona, sempre.
A poco a poco la vita comincia a rifluire.
La gioia è tale che per un paio di giorni si va in giro con il defibrillatore attaccato, finché non avviene una stabilizzazione e si ricomincia, in totale serenità, una fase di pacifica ricerca, preludio quasi sempre di una nuova fase maniacale.
La ricerca è l’aspetto più divertente del collezionismo, cercare è persino meglio di trovare.
Una volta ci si passava i consigli tra amici, si leggevano le riviste specializzate - negli anni Settanta il meraviglioso Ciao 2001- si ascoltavano i dischi da chi li aveva, o dalle poche radio che li trasmettevano. Poi, dopo lunga ponderazione, se il disco valeva la pena, lo si comperava.
Ora è facilissimo ascoltare anche dischi usciti da un quarto d’ora.
Nella stragrande maggioranza dei casi c’è chi carica subito i brani su YouTube, a volte sono gli artisti stessi, che ben sanno della portata mondiale del web, che fanno uscire un demo ancor prima del disco.
Quindi, basta usare alcune semplici strategie di navigazione.
Mettiamo che un amico posti un video di YouTube sulla pagina di un social network. Lo ascolto, non mi entusiasma, però sulla barra laterale compaiono una serie di video correlati in qualche modo con quello non entusiasmante. 
Si va a curiosare e capita di trovare qualcosa di interessante.
Allora si va a cercare la discografia di quelli, si ascolta, si valuta.
Se non piace la si dimentica, ma se piace si va su Amazon, o sullo store di Apple e si va a guardare cos’hanno comperato quelli che hanno preso il disco che ci sta piacendo. Ne escono decine di suggerimenti, con i quali è possibile ricominciare il percorso. 
E’ facilissimo.
Oppure si vanno a cercare le classifiche dei migliori dischi del genere che ci interessa e si procede poi allo stesso modo.
Le cose migliori degli ultimi due anni le ho scoperte così, folgorata da gruppi di sconosciuti ragazzini olandesi bravissimi, come da oscuri cantautori, o da poco pubblicizzati progetti collaterali di musicisti già famosi, solo perché consigliati da gente che ha comperato un disco che ho comperato anch’io.
Percorsi tra le pieghe del web che a volte richiedono tre, quattro passaggi prima di arrivare ad una buona traccia, ma che portano sempre a qualcosa che, da collezionista quale sono, non mi sarei potuta perdere per nessuna ragione al mondo.
Occorre anche molto tempo, è vero.
Ma da quando ho cominciato sono passati quarant’anni, esco poco, la televisione non la guardo quasi mai, vado a letto presto solo se mi devo svegliare all’alba e sbrigo tutte le faccende con le cuffie nelle orecchie.
Ho anche l’orecchio molto allenato a riconoscere quello che mi può piacere e se qualcosa mi sfugge al primo ascolto, è perché il destino mi riserva di riscoprire dopo qualche tempo il genere di meraviglie che si celavano nella mia libreria.
Nonostante tutto, però, mi ci vorrebbero almeno tre anni di ascolti per almeno tre o quattro ore al giorno per venire a capo di tutto quello che vorrei ascoltare, e se nel frattempo non uscisse nulla di nuovo e di interessante.
Quindi, come ogni collezionista, sono sempre a rincorrere qualcosa che non afferrerò mai del tutto.
Ma forse il gusto è proprio questo, l’avere davanti un panorama infinito, averne altrettanto alle spalle, combattere con le ciclicità dell’umore e non  volersi fermare.
Se divento sorda, abbattetemi.



martedì 1 gennaio 2013

Biografia minima di un mestierante


Sette anni: la manina incerta imprime sul foglio un segno grosso con la matita mangiucchiata. 
Ormai sa scrivere, ma non ha ancora perduto del tutto il bisogno infantile di testimoniare traccia di sé, con una pressione che quasi incide la carta sottile. 
L’inconscio di un bambino esige un diretto rapporto quantitativo tra ciò che il piccolo scrive e l’importanza che egli stesso gli attribuisce: “Una pagina intera di caratteri grandi e grossi, questa è una bella storia!”
C’è un castello, naturalmente, e un drago orrendo e un mago cattivo e un cavaliere senza paura, accorpati in un blocco polisindeto di e allora, e poi, e congiunzioni che non prevedono punteggiatura, in una compulsione fantastica a dire tanto, a dire troppo.
Ha sette anni, la sua immaginazione è lanciata in uno spazio siderale senza limiti, e non ha alcun senso che gli adulti sviliscano il suo progetto di vita con correzioni in rosso, o dicendogli che si tratta di un sogno: lui farà lo scrittore e non saranno certo le regole di ortografia, o i divieti, o le imposizioni di virgole prima dei ma - ma mai davanti alle e - a scoraggiare questa visione limpida, nitida, bruciante come il fuoco di un altare.
E’ buono il profumo della carta e dolce l’aroma della polverina scura che si sgretola piano piano dalla grafite della matita.

Diciassette anni: il diario è rivestito con carta di giornale in un insolito collage e giace sulla scrivania, ancora pulsante delle confessioni intime di un’identità che si va cercando negli errori più sciocchi. 
Sua madre non lo leggerà, perciò non ha bisogno di nasconderlo, ha fiducia. 
Scrive ogni giorno e racconta solo la verità: parla di quella compagna carina che vorrebbe invitare a uscire, del litigio con un amico, di delusioni e aspettative. 
Racconta i sogni, ma non i sogni, racconta ciò che ha sognato di notte, quello che talvolta prende la forma di novella surreale, popolata di lievi fantasmi, di dubbi, di gatti che giocano a canasta, di oggetti parlanti che dispensano consigli, di razzi che percorrono le scie stellate delle galassie con a bordo gli insegnanti in abiti da inquisitori. 
Gli piace questo universo simbolico, intuisce che si tratta di un gioco affascinante della mente che pone indovinelli, allora, da sveglio, prova a cimentarsi con la realtà deformata, la filtra attraverso segni nei quali poi finisce per perdersi, poiché non ha ancora imparato a dominare con confini logici il susseguirsi di eventi illogici, o perché non tutto il suo pensiero prende forma sul foglio bianco, ma subisce fatali omissioni.
Il suo progetto di vita, tuttavia, è ancora intatto: farà lo scrittore e non lo dissuaderanno gli elenchi di figure retoriche che deve imparare a memoria per compiacere la professoressa di Italiano, né le analisi dei testi nei quali deve saper riconoscere l’intreccio, la trama, l’ordito, il ricamo, il punto a giorno di bordura. 
Un giorno sarà lui il tessitore e sfiderà gli dei come fece Aracne con Atena, a costo di restare ragno per l’eternità (ma vorrebbe forse altro?). 
Aspetta con trepidazione le occasioni per sottoporre i suoi lavori al giudizio dell’insegnante, spesso ne viene gratificato e si gonfia di orgoglio. 
Scrive anche per il giornalino della scuola ed è diventato piuttosto popolare, ma ciò che è suo, più intimo e profondo, resta segreto. 
Nelle sue poesie, acerbe nel linguaggio, gravide nei significati, c’è la freschezza rara di chi ancora con le parole non sa mentire.
Gli piace la carta ruvida, spessa, che assorbe l’inchiostro della penna dalla punta veloce, rigorosamente sottile.

Ventisette anni: la laurea è inutilizzata nel cassetto, il lavoro saltuario, gli entusiasmi si sono un po’ stemperati nel fluido del tempo. 
Nella redazione del quotidiano locale regna un clima di dilettantismo, non molto diverso da quello che si avvertiva quando, giovane ed entusiasta, collaborava col giornalino della scuola scrivendo pezzi di costume, sciocchezze sulle gaffes dei professori o sulle figuracce fatte dai compagni durante le interrogazioni. La differenza sta nel fatto che allora non se ne accorgeva, ora invece sì. 
Redige trafiletti di cronaca senza neppure firmarli, ma a casa, quando è solo, non ha perso l’abitudine di scrivere a mano usando l’olfatto, gustando con le dita la grana dei fogli, ascoltandone il fruscio quando si volta pagina, mordicchiando la punta della penna, amara di inchiostro.
Non si perde più dietro gli angoli insidiosi dei suoi racconti carichi di tracce da decifrare, legge, rilegge, lima, straccia, riscrive, brucia dello stesso fuoco di quando era bambino, cerca la stessa verità di quando era adolescente. 
Mette a nudo la sua anima senza mai parlarne, perché nella letteratura l’unico modo per raccontare il vero è attraverso una finzione simbolica.
Il suo progetto è chiaro: vuole diventare uno scrittore, né lo svieranno dal cammino le limitate battute a sua disposizione sul giornale, o i commenti cattivi dei pochi amici ai quali fa leggere i suoi racconti.
Protetto da un nickname, pubblica timidamente qualche scritto su siti che si auto-definiscono letterari, approfittando del grande pubblico messo a disposizione da Internet per far leggere i suoi racconti; fa amicizie, riceve qualche benevolo commento che lo incoraggia a proseguire nella scrittura, a sua volta incoraggia altri, ma non ha cuore di disilludere chi infila errori di sintassi e ortografia come perline di una collana, o chi scrive banalità da ragazzina pur essendo ormai in piena menopausa : chi ci prova viene assalito e coperto di “tu non ne hai il diritto”
Lo scrittore telematico non ama affatto il confronto, cerca solo piaggeria, false conferme della propria bravura od occasioni per mostrare la propria sapienza in campo poetico, sfoggiando accademie risibili.
Lui vuole altro, vuole un’edizione rilegata che faccia il profumo di vaniglia di certa carta stampata, vuole il cartoncino sottile su cui perdere l’occhio leggendo. Leggendosi.

Trentasette anni: lavora da qualche anno presso una importante società commerciale, perché a un certo punto della vita è stato necessario sacrificare una possibile carriera al giornale a favore di una probabile carriera in azienda. La sicurezza economica ha le sue priorità.
Scrive sempre, anche se ormai la carta ha ceduto il passo al più pratico notebook, salvo quando di notte, nel bel mezzo di un sonno incoraggiato da una pillola - ma non per questo meno tormentato- si sveglia con l’irrefrenabile impulso di fissare un pensiero che lo ha sfiorato, una delle meteore che fin da bambino ha imparato ad afferrare al volo.
In cantiere ha un grande romanzo, la cui gestazione è iniziata per disperazione e il cui parto si preannuncia chirurgico. Ha mandato molti manoscritti ad editori, infatti, ricevendo lusinghiere proposte di pubblicazione, alla semplice – e irrilevante – condizione di acquistare preventivamente un certo numero di copie, o di contribuire con un modesto esborso di denaro alle spese di stampa, distribuzione e promozione della sua raccolta di racconti.
Non occorre essere contabili per accorgersi che ogni copia del suo libro gli verrebbe a costare almeno il triplo del prezzo di copertina. 
Ha incontrato anche editori molto onesti, che lo hanno gentilmente liquidato con formule magiche come “ …i suoi interessanti racconti non sono in sintonia con la nostra linea editoriale”, oppure “…siamo spiacenti, ma attualmente in Italia il racconto è un genere che non incontra i favori del pubblico, salvo chiamarsi Carver. Poiché il libro è anche un prodotto commerciale, saremo lieti di prendere nuovamente in considerazione un suo scritto quando avrà il respiro di un romanzo…” . 
Cosa ci può fare se il romanzo a lui il respiro lo toglie?
Forse occorre farsi un nome, partire già con un curriculum interessante come autore di racconti, partecipare a concorsi letterari per acquisire prestigio.
Partecipa, ottiene subito un buon piazzamento con una storia quasi brillante, dietro ad un commovente racconto su un giovane corroso dalla leucemia e a una sofferta dichiarazione d’amore alla grande voragine di ground zero. Ancora un altro podio, un assegno e una coppa – orribile – con una poesia d’amore semplice e gioiosa, subito appresso a una stucchevole lirica in endecasillabi tutta trecce di fanciulla, nastrini gualciti e labbra vermiglie, scritta a tavolino, probabilmente con l’aiuto di un manuale di composizione poetica fermo a Giovanni Pascoli, se non allo Stilnovo. 
Non se ne preoccupa, pensa che si tratti di quella particolare giuria, il cui gusto ignora qualsiasi forma letteraria che non si possa racchiudere in una metrica rigidamente calibrata su contrazioni o dilatazioni di suoni vocalici nelle sillabe, come se l’enigmatico sorriso di una Monna Lisa avesse fissato i canoni della sensualità, oltre i quali a nulla fossero servite le geniali deformazioni delle prospettive simultanee di un Picasso.
Tuttavia comincia a porsi domande, mentre sfoglia le ultime novità sui banconi delle librerie: nuove edizioni di grandi classici, sciocchezze di comici televisivi, best-sellers di genere, reportages sugli ultimi fatti di cronaca – guerre, o squartamenti ad opera di madri pazze, fa lo stesso, purché sgorghi il sangue a fiotti e vi si possa dire: l’uomo è peggio delle bestie, con la consolazione di chi sa di agire rettamente e pensare rettamente, con la rassicurazione catartica che i pazzi siano altri. 
Soprattutto legge vicende strappalacrime, odiosi atti di cannibalismo su dolori che nella vita vera le persone vivono veramente, scritte da altre persone che probabilmente non le hanno mai vissute.
Lui non lo fa, non ne è capace, lui conosce troppo bene il dolore da quando ha perduto sua madre, anni prima. 
Ne scrive, certamente, ne ha scritto pagine e pagine, ma non ha mai potuto sbattere in faccia ad altri (e a se stesso?) la crudeltà dei diretti significanti. 
Morte, malattia, sofferenza fisica, progetti che si perdono nel vento come fumo di un camino… non è così che ne ha parlato, non è in questo modo che ne potrà parlare, ma non perché insito nelle parole vi sia un tabù, bensì perché il dolore è proprio di ciascuno di noi, va difeso, va trattato con pudore, è fragile e prezioso. 
Nessuno lo può comprendere, se non attraverso un filtro. 
La letteratura è filtro, la poesia è filtro, quella malattia endemica e incurabile di cui parla Montale, quella nella quale cuore può far solo rima con rigore. 
Dov’è il cuore della bionda signora di Milano nei cui racconti si fanno esplodere piccoli kamikaze, o padri morenti si confessano con voce tremula a figli che non incontrano da anni? Dove sta il cuore di questa signora, insignita di premi, onori e riconoscimenti, che sulla terrazza della sua bella casa che guarda i Navigli racconta di una madre che vende il figlio per fame, senza averla mai neppure immaginata la fame, ma solo perché sa che quello che un lettore vuole – sia un uomo qualunque o un professore in pensione di una giuria – è piangere, commuoversi, straziarsi, inorridire e insieme purificarsi, sentirsi più buono, godere inconsciamente del fatto di non avere un figlio kamikaze, non essere morente e non avere fame?
Quale cinismo bieco permette di farsi paravento fregiandosi del titolo – o anche solo dell’aspettativa di meritarlo – di scrittore, per fingere nelle parole di avere sopportato ciò che ad altri brucia davvero sulla pelle?
E quel dottore, che tutte le giurie si contendono, che nel palpare il seno di una paziente avverte il nodo che le sarà fatale, con quale diritto lo racconta - come se il groppo in gola, la disperazione, la rabbia fossero suoi- a giurati che lo leggono come se assumessero su di sé il carico di dover assistere quella donna quando sarà solo un grumo di sofferenza?
Fino a che punto la finzione letteraria può trascendere l’etica che vieta di speculare sulla vita per farne mercimonio? Dove sono finiti il sogno, l’immaginazione, l’allegoria e quella capacità di restare lievi, condensando nell’attesa di un bacio di buonanotte l’angoscia di un bambino, raccontata da un uomo sofferente alla ricerca del tempo già vissuto per compensarsi di quello che non vivrà? 
Lui, che coltiva da trent’anni il progetto di essere uno scrittore, scuote la testa, si dice che non è vero, non è così, forse è solo un caso, ma un tarlo maligno lo induce a effettuare qualche piccola ricerca anche sulle pubblicazioni e sui premi vinti dalla graziosa professoressa di Padova, che si dice abbia amici sparsi in tutta Italia, coi quali scambia informazioni sulla composizione delle giurie letterarie in modo da scrivere ciò che più probabilmente ne incontrerà i gusti: anche lei, caso insolito, ha perduto una cara amica per un male incurabile, è stata a Kabul prima dell’orrore, ha descritto gli occhi di un piccolo schiavo nel cuore dell’Amazzonia e ha raccontato di una famigliola in visita alle Twin Towers un certo 11 settembre.
Anche il borioso ingegnere di Novara, che contende il più alto gradino degli onori poetici alla sua rivale di Avellino, scrivendo limpide ottave sul padre “curvo nei campi a mietere gli anni/ gravi di frutti, colmi d’affanni” nella grande piana alluvionale del Po - tanto quanto lo era il padre dell’illustre poetessa irpina in terra campana - lo insospettisce: ha un palmarès invidiabile, si destreggia con uguale successo sia in prosa sia in poesia, le sue storie sono sempre molto misurate, benché scritte con un impercettibile soffio di superiorità, ma anche lui parla di malattie, guerre contemporanee, notizie di cronaca raccontate come fiabe a giurati ipersensibili.
Poche, pochissime volte viene riconosciuto – da un uomo qualunque o da un professore di una giuria - uno scritto difficile, o simbolico, o che celi dietro una patina di significante un significato più intimo, più mascherato da analogie che non da similitudini, che davvero sia in grado di mentire, fingendo di sentire ciò che veramente si sente.
Lui, che da trent’anni desidera diventare uno scrittore, capisce che chi legge vuole la vera menzogna, vuole essere certo che chi scrive stia ingannando, per potersi lasciar andare alla propria commozione senza che nessuno sia morto davvero, fingendo che la guerra sia una folata di vento scuro che scoperchia le case, sgretola le trine delle moschee o gela l’acqua delle fontane, illudendosi che la fame, la malattia, il dolore siano solo ingredienti di un piatto un po’ indigesto, pensando sempre che uno scrittore, cavaliere senza macchia e senza paura, potrà spezzare l’incantesimo facendo versare quella lacrima miracolosa nel cui fluido glauco si scioglierà tutto il male del mondo.
Se questo è ciò che vogliono, questo è ciò che avranno.

- Mi dispiace –
Le parole del medico gli risuonavano nella testa come il suono lugubre delle campane di notte.
- Mi dispiace, purtroppo il tempo che resta è poco –
Il nastro si stava riavvolgendo, percorrendo a ritroso quell’ultima mezz’ora, la più lunga, la più penosa della sua vita.
- Mi dispiace, purtroppo il tempo che resta è poco: sei, otto mesi al massimo –
Non era vero, non poteva essere vero: rivisitava con la memoria ogni singolo passaggio di quel discorso assurdo, pronunciato da un uomo vestito di bianco che teneva con aria grave la sua radiografia tra le mani.
- Mi dispiace, purtroppo il tempo che resta è poco: sei, otto mesi al massimo, ma molto dipende anche dalla qualità della vita…-

Volevano un malato? Ecco glielo stava dando, era capace anche lui, e che ci vuole? Buona tecnica e poco rispetto per chi ti legge, per chi ti valuta, per chi soffre davvero, per chi legge davvero, per chi scrive davvero, per chi leggendo va oltre la cortina delle lacrime di plastica. 
Lui ora ha un progetto di vita molto chiaro: è diventato un mestierante.

<Trattandosi di opera di fantasia, ogni riferimento a persone esistenti o a fatti realmente accaduti è puramente casuale>