venerdì 4 ottobre 2013

Aiace e il peperone maledetto

Insegno in una scuola di campagna, una struttura vecchiotta e al di fuori di qualsiasi criterio di sicurezza, ma graziosa e circondata da un ampio giardino. 
Data la posizione isolata, la bidella ne è anche custode, poiché abita infatti con tutta la famiglia in una casetta ricavata da un’ala dell’edificio. 
Detta così sembra una scuola grande, ma in realtà è piccolissima: le cinque classi elementari sono alquanto sacrificate e disponiamo, come unico spazio comune, di una ridicola aula computer che funge anche da biblioteca, sala fotocopie, sala insegnanti e sgabuzzino per le scope.

La bidella, una buona donna non intaccata dalla cultura e già di per sé non molto intelligente, considera non tanto la sua casa un prolungamento della scuola, quanto piuttosto viceversa, tant’è che tempo fa ci vedemmo costrette a spostare la fotocopiatrice per evitare che l’umidità del suo bucato, steso nella stessa stanza, ne compromettesse i meccanismi. 

Il frigorifero, che dovrebbe contenere il ghiaccio per le innumerevoli contusioni dei nostri vivacissimi alunni, è invece stipato di strutto, barattoli di pesto, confetture che vengono confezionate dalle sue stesse mani e prosciutti, che la bidella, giocatrice incallita, vince ad ogni possibile tombola del comprensorio.

Lo scorso anno, che avevamo una classe in meno e quindi un’aula vuota, nella mattinata la signora vi si ritirava a preparare col matterello le piadine o le tigelle per la nostra merenda. 
Nulla da dire, donna di rara generosità.
Il suo mansionario, tuttavia, sembra essere protetto più di un dossier della C.I.A.: la nostra bidella, infatti, fa di tutto salvo ciò che ci aspetterebbe comunemente da una persona con identico ruolo in qualsiasi altra scuola. 

Non pulisce, con cambia la carta in gabinetto, non apre la porta, non risponde al telefono, non c’è mai quando occorre sorveglianza. 
In compenso è nell’orto ricavato nel giardino della scuola, è a raccogliere fagiolini nel campo, è in casa a fare lavatrici oppure, molto più frequentemente, è nel suo spazio a cucinare.

Si entra a scuola e si percepisce odore di minestrone che impregna l’aria: eccolo lì, bolle allegramente tra l’aula di quinta e quella di terza; si sente un costante martellamento: non sono i tanto agognati lavori alla struttura, ma la bidella che col suo pestello prepara, appunto, il pesto; mancano gli asciugamani o i gessi: la bidella non può, è impegnata a pulire i carciofi per le lasagne vegetariane.

Tutta la mattinata è un viavai con scolapasta, cassette di legumi e ortaggi, barattoli, libri di ricette. 
Nella sua incontestabile generosità distribuisce i suoi manufatti a tutte le maestre, eccetto alla coordinatrice del plesso, che le sta antipatica e di conseguenza non mangia mai niente. 
L’unica volta che le ha regalato un vasetto di qualcosa è stata quella in cui le ha rovesciato un sugo sulle scarpe nuove. 
A noi altre invece va benissimo: la scuola è la migliore trattoria della zona.

Giorni fa la bidella ha cominciato a lambiccare con dei piccoli peperoni, disponendoli ordinatamente in teglie per la cottura a vapore. La vedevamo molto impegnata in questo lavoro e ogni tanto si veniva a giustificare con noi, irrompendo nelle classi come una folata di vento, dispensandoci confuse spiegazioni circa ricette segrete di qualche parente. 

Poiché non conosce l’uso della frase minima, composta di soggetto e predicato, non si capisce mai bene di cosa parli.

Dopo un paio di giorni, la mia collega di matematica ha cominciato a ringraziarla per i peperoni buonissimi, che – testuale – “…erano così piccanti che mi si è sfiammato un ascesso. Poi ho corretto i compiti fino alle tre e mezza di notte, mi hanno caricata di energie”. 

Io ero presente e alquanto incuriosita. 
Poiché sono una golosa patologica e una ruffiana professionale, ho cominciato a dimostrare alla bidella un vivo interesse verso i suoi peperoni, nella speranza di rimediarne un barattolo, cosa prontamente avvenuta il giorno successivo.



Giunta a casa, nonostante l’aspetto sinistro della poltiglia nella quale galleggiavano i peperoni e incurante degli avvertimenti subliminali della collega, mi sono avventata su uno dei bocconcini, intero.
Il primo impatto è stato devastante: mi sembrava di avere in bocca un bolo di magma incandescente. Ho urlato, poi, tentando di tamponare l’ustione ho immediatamente addentato del pane, per fortuna con molta mollica morbida, ma questo non mi ha impedito di cominciare a lacrimare. 

Le mie papille, oramai cauterizzate, non hanno distinto alcun sapore. 
Ho richiuso il barattolo, incerta se chiamare un esorcista a benedire il frigorifero. 
Questo accadeva all’ora di pranzo.

Alla sera, il mio compagno, detto Aiace per la sua prestanza fisica, altro goloso patologico e spizzuccatore professionale, ha avvistato i peperoni. 

Giuro che ho cercato di dissuaderlo, ma invano: benché tagliandolo a metà, si è mangiato un peperone, uno solo. 
La sua reazione è stata più composta: ha cambiato colore, ha mosso la bocca, ormai insensibile, per bofonchiare qualcosa che non ho capito, ha richiuso il barattolo e, dopo una buona decina di minuti ha dichiarato lapidario: “Mai più”.

La serata è poi proseguita nel consueto clima familiare. Quando siamo andati a dormire, io mi sono infilata i tappi nelle orecchie -Aiace russa come un tirannosauro con la sinusite- e sono praticamente svenuta, come al solito, piombando in un sonno tale che la mia famiglia avrebbe potuto traslocare nottetempo con tutto il mobilio a mia insaputa. 
Al risveglio mi sono trovata di fronte Aiace che sembrava reduce da un naufragio: ricci ingovernabili come impastati di sabbia e salsedine, barba lunga, occhio con pupilla a punta di spillo e occhiaie blu, molli come calamari. 

Non mi ha neppure salutata, ma è sbottato subito: “Ma che cazzo c’era nei peperoni? Peyote?"

Era obiettivamente stravolto. 

Mi ha raccontato di aver visto un film mentale durato ore, che lui ha definito “ Una di quelle proiezioni allucinanti degli anni Settanta durante le quali stavi murato al cinema, senza via di scampo, tipo Zabriskie Point, con esplosioni al rallentatore e scenari apocalittici”.
Lo guardavo mentre scuoteva la testa sconsolato: “Quel peperone allucinogeno mi ha modificato il carattere. Sono stato geloso di te per almeno tre ore, ti vedevo che ti accoppiavi selvaggiamente con un tizio grande e grosso, con un ciccione … ecco, io che non sono mai stato geloso in vita mia – proseguiva – sono stato malissimo, volevo ucciderti nel sonno… tutti i miei principi sono crollati”. 
Si aggirava per la stanza gesticolando, con espressioni sul viso che in cinque anni non gli avevo mai visto.
Un uomo ferito, nel profondo.

Ho cercato di usare molta dolcezza, se non altro sulla faccenda degli accoppiamenti selvaggi, ma temo che la sua fiducia nei miei confronti si sia incrinata per sempre.
Quando le acque si sono calmate, abbiamo deciso di conservare i peperoni per qualche amico, per verificarne l’effetto anche su altri organismi.
Tuttavia io sono stata attratta dalle proprietà allucinogene di questi peperoni, che mi è stato detto dalla bidella essere confezionati con un ripieno di tonno, capperi, prezzemolo e aglio, secondo una vecchia ricetta, presumo di Mephisto, lo stregone nemico di Tex Willer. 

La bidella ha pure aggiunto: “ Ma tu avevi quelli cotti o quelli crudi?” 
e a fronte della mia risposta: “Crudi” ha affermato: “Quelli crudi sono molto più leggeri”.

A questo punto non ho resistito: a mezzogiorno ne ho mangiati tre. 
Dopo lo stordimento iniziale non è successo nulla, anzi, devo dire che li ho anche apprezzati.
Non paga, e avendo fallito l’esperimento -in assenza di visioni- ho ritentato alla sera con quattro peperoni interi, ma sul momento non ho provato niente, forse per avvenuta assuefazione. 

Verso le tre di notte, tuttavia, mi sono svegliata, con un bruciore allo stomaco terribile. 
Ho gironzolato per casa, acceso il pc, fumato qualche sigaretta e… finalmente! 
Ho cominciato a cavalcare per le praterie celesti accanto al Grande Manitù: un viaggio bellissimo, mistico, coinvolgente…

Nel giro di tre giorni ho finito il barattolo e sono ormai peperonidipendente.
Benché Aiace si prodighi nel tentativo di disintossicarmi con minestroni di verdura, io sono molto triste.

<Trattandosi di opera di fantasia, ogni riferimento a persone esistenti o a fatti realmente accaduti è puramente casuale>


domenica 29 settembre 2013

Una razza canina poco conosciuta: l'Altotto

Benché sia presente sulla scena della cinofilia dalla notte dei tempi, l’Altotto è rimasto sconosciuto al grande pubblico fino ad epoca recente, pur restando ancora avvolti da un velo misterioso sia gli standard della razza, sia le sue origini.
In molti sono propensi a credere che si tratti di una derivazione del Beagle, frutto di una relazione fatale con un Bassotto Tedesco a pelo raso, altri al contrario vi ravvisano tracce di Segugio, se non addirittura del meno noto Beauceron, facendone quindi un cugino più minuto del Dobermann.
Al mistero sulle sue origini ha contribuito l’impossibilità di selezionarlo, poiché infatti cuccioli di Altotto si possono presentare con uguale incidenza nelle covate di qualsiasi razza, ma allo stesso tempo non è detto che tra due genitori Altotti nascano figli della stessa razza.
Questa particolarità, che fa dell’Altotto un cane di grande pregio, se da un lato lascia supporre una mappa genetica di caratteri recessivi e burloni, testimonia  come il suo più lontano antenato fosse un infaticabile tombeur de chiennes.
In ogni caso, il primo a tentarne una selezione e fissare approssimativi standard della razza fu il Barone Otto von Kragen nel 1870, che tuttavia su ventisette cucciolate di cani assortiti ottenne solo due Altotti purissimi; più fortunato fu l’allevatore francese Marcel Mordant, che riuscì a ottenere nel 1925 una linea di due generazioni di Altotti, benché di taglia piccola, ma alla terza si ritrovò con un cane basso, tarchiato, con le gambe storte e il muso schiacciato.
Conosciuto come cane da caccia, l’Altotto non solo è negato per questo sedicente sport -che detesta al punto da fingersi morto, o da simulare qualche malanno in occasione di ogni battuta-  ma rappresenta per i cacciatori una vera iattura, poiché se viene inserito in una muta, induce gli altri cani all’insubordinazione. Tra l’altro, non si capisce perché un gruppo di cani da caccia si chiami “muta” quando in realtà fanno un baccano del diavolo: sarebbe più appropriata chiamarla “abbaiata di cani”, ma tant’è.
L’utilità dell’Altotto si rivela principalmente come cane da restauro: dopo il suo passaggio, infatti, quasi tutto il mobilio di casa necessiterà di essere rimesso in sesto dalle abili mani di un artigiano.
L'Altotto è anche un formidabile cane da riporto: abituato a dormire sulla testa del padrone e a strappargli i capelli, lo costringe ben presto ad acconciare i pochi rimasti in modo da ricoprire artificiosamente le aree diradate del cranio.
Utilizzato inoltre fin da tempi remoti nelle manifatture, in particolare nel settore delle calzature come frollatore di suole e tomaie, e nell’industria tessile come sfilatore di tessuti, troviamo testimonianza di questa sua abilità anche nell’Odissea: la tela di Penelope, che la regina di Itaca tesseva durante il giorno, veniva infatti sfilata nottetempo da Argo, il fedele Altotto di Ulisse.
L’impiego ideale dell’Altotto resta comunque nelle biblioteche, dove si rivela un autentico divoratore di libri.
L’Altotto è un cane molto socievole, desideroso di attenzioni e di indole assai gelosa; fa amicizia con tutti, in particolare con i gatti, che nei primi mesi di vita, finché le dimensioni glielo consentono, imita in tutto e per tutto.
A causa di questa sua ultima caratteristica, soffre frequentemente di crisi di identità, pertanto è opportuno che nel primo periodo della sua educazione gli vengano forniti adeguati stimoli canini, se si vuole evitare che da adulto dorma sui davanzali, spicchi balzi sul tavolo, o venga a molestare mentre lavorate, stendendosi sulla tastiera del computer.
L’Altotto è un cane ordinato e testardo. 
Sottrae tutto ciò che state utilizzando e lo ripone nella sua cuccia, e se comperate un giocattolo per lui e uno per l’altro animale di casa -sia esso un cane, un gatto o un cammello- potete stare certi che vorrà quello destinato all’altro, e insisterà ad abbaiare finché non l’avrà avuta vinta.
Ha bisogno di molto movimento ed è un veloce corridore, aiutato dalla linea snella e soprattutto dalle orecchie pendule, che gli forniscono propulsione e un’adeguata areazione durante la corsa.
Non esiste un vero e proprio standard della razza, ma è indispensabile che abbia grandi orecchie pendule e vellutate, attaccate al lati della testa, occhi a mandorla scuri, bistrati e languidi, e che il muso culmini con un enorme tartufo nero dalle larghe narici.
Complessivamente l’Altotto è assai simile a un Bassotto con le gambe lunghe- da cui il nome- però è più grosso, ha le orecchie più tonde, il muso meno affilato, la coda più allungata -che viene tenuta alta come una bandiera- il pelo più morbido e la focatura più sfumata, pertanto, a guardarci bene, al Bassotto non assomiglia per niente.
L’Altotto può raggiungere anche un peso considerevole, ma esistono esemplari che non arrivano ai sei/sette chili, pur mantenendo una corporatura snella e vigorosa. 
Sono ammessi mantelli di tutti i colori.
Va alimentato in modo abbondante, ma equilibrato, poiché quasi sempre soffre di appetenza. Nella sua dieta non possono mancare anche frammenti di cartone da imballaggio, pellicola domopack, legno, calzini, cotton fioc, spugne, brandelli di riviste di enigmistica.

Nessuno è in grado di indicare un allevamento di Altotti a cui rivolgervi nel caso ne desideraste uno, pertanto è consigliabile, qualora aveste la fortuna di incrociarne un esemplare, di prenderlo immediatamente con voi: chi conosce un Altotto non potrà infatti più fare a meno di condividere le proprie giornate con questo straordinario e dolcissimo cane.


Gromit di Casa Bottoni Merli
Altotto di tre mesi

martedì 24 settembre 2013

La Creazione secondo il mio cane

All'inizio non c'era nulla, solo il Grande Altotto con il suo enorme osso.
Il Grande Altotto trascorreva il tempo infinito, nello spazio infinito, rosicchiando il suo osso, ma si annoiava.
Un giorno, sentì l’urgenza di deporre una grande cacca e, in seguito, di farci pipì sopra: aveva creato la Terra, con le montagne, le colline, tutti i suoi mari, i laghi e i corsi d’acqua.
Il Grande Altotto vide la sua creazione e ne fu molto fiero, pertanto desiderò popolarla.
Allora rosicchiò un po’ di osso e con esso fece gli alberi e tutte le piante, ma queste non si potevano muovere e la Terra era solo un altro posto molto noioso.
Il Grande Altotto però era molto stanco, quindi si addormentò e cominciò a sognare.
Sognò animali simili a lui, alcuni anche più grandi, o più piccoli, o senza zampe ma capaci di nuotare, o con due sole zampe per camminare e due grandi piene di piume per alzarsi nel cielo. 
Erano le figure strane dei sogni, con lunghi nasi, lunghi colli, o fatti di sola coda, o così piccoli, brutti e fastidiosi che il Grande Altotto desiderò nel sogno di avere qualcosa per spiaccicarli e quindi sognò una ciabatta, che era buona anche da rosicchiare.
Quando si svegliò, la sua enorme cacca cosmica era popolata di queste strabilianti creature, ma nessuna di esse sembrava poter diventare sua amica. 
Allora il Grande Altotto rosicchiò un po’ del suo osso e lo impastò con la saliva, poi prese a leccarlo tutto e fece un animale un po’ diverso da a lui, ma altrettanto bello e nobile, con unghie taglienti, e capace di spiccare salti, che chiamò Mamao. A forza di leccarlo sentì che Mamao prendeva vita e che dall’interno del suo corpo proveniva un suono bellissimo, che lo fece nuovamente addormentare.
Questa volta il Grande Altotto dormì abbracciato a Mamao ed insieme sognarono un animale a due zampe, con poco pelo, che aveva al posto delle zampe anteriori due braccia al termine delle quali c’erano delle mani calde, adatte a fare carezze, con delle piccole unghie, ideali per i grattini.
Quello fu un sogno bellissimo e quando si svegliarono, il Grande Altotto e Mamao promisero di dare per sempre il loro cuore a questa creatura e di essergli fedeli, anche se sapevano di esserne superiori, e così fecero i loro discendenti con i discendenti della creatura.
Alcuni di questi ultimi non vennero bene, per la verità. 
Molti non vennero bene, per la verità, ma i discendenti del Grande Altotto e di Mamao continuarono sempre a dare loro il cuore e la fiducia, perché hanno sempre saputo di esserne superiori. 


(Mito della creazione degli Altotti dell’antico Mediterraneo, dal Grande Libro della Saggezza Canina, ed. Woof)

Questo è Gromit, il mio cagnolino nato il 28 giugno 2013.
Gromit ha la mamma Beagle e il papà Bassotto, ma siccome lui ha le gambe lunghe, è a tutti gli effetti un Altotto.




mercoledì 4 settembre 2013

Le mani

Talvolta sembra che ciò che amiamo di una persona si condensi in un unico gesto, in un dettaglio che appartiene all’altro ma diventa così profondamente nostro da essere in grado, da solo, di darci tutto il senso dell’amore.
Talvolta sembra che ciò ci sconvolge di un dolore si concentri su quell’unico gesto, che non vedremo più e che è in grado, da solo, di darci tutto il senso della perdita.
Le mani, prima di addormentarsi, lui le congiungeva sul petto, intrecciate, in una posizione di attesa composta del riposo.
Quelle mani mi avevano accarezzata, abbracciata, rassicurata, accompagnata ad affrontare la vita che avevamo scelto di dividere e che nel corso degli anni era cambiata nella sua forma, ma mai nei valori che ci accomunavano. 
Quelle mani avevano cercato amore, sostegno e conforto nelle mie.
Quelle mani avevano amato i nostri figli.
Quelle mani si erano congiunte in preghiera, le sue, le mie, le nostre, in una preghiera che non è stata ascoltata: se Dio mi è padre, dovrà spiegare a questa figlia disperata i motivi della sua crudeltà.
Nel momento in cui è iniziata la dissolvenza, il suo lieve staccarsi da noi, le sue mani si sono cercate ancora, per ricongiungersi sul petto in una posizione composta di attesa della pace, della fine di una lotta inutile, ma non sono riuscite a trovarsi.
Avrei voluto farlo io per lui, guidarle l’una verso l’altra, intrecciare le dita lunghe, pallidissime, ormai quasi fredde, in quella posa che tante volte, quando dormiva accanto a me, mi aveva fatta sorridere. 
Lo prendevo in giro, per come si addormentava, gli dicevo che si componeva immobile come un morto. 
Avrei voluto farlo io, ma non l’ho fatto, incantata alla sorpresa di riconoscere un gesto che credevo di avere dimenticato da quando non dormiva più accanto a me, paralizzata dall’enormità di quel gesto piccolo e impossibile.
Le mani non si sono trovate, si sono sfiorate, hanno cercato l’abitudine dove la volontà ormai era fuggita, ma la dissolvenza aveva sfumato tutto, e neppure un gesto semplice come intrecciare le dita gli apparteneva ancora.


Non credo che della sua morte ricorderò altro, non voglio ricordare altro che un gesto – che gli è stato negato- nel quale ora mi accorgo che era racchiusa anche la mia vita. 

< per Lele, a dieci anni oggi dalla sua morte>


domenica 25 agosto 2013

La Truzzeide- cap.6: L'horror vacui e la Guerra Musicale 2.0

I Truzzi temono il silenzio, come i vampiri la luce.
Se sono costretti ad esporsi al silenzio, si riducono a un mucchietto di cenere, perciò, quando l’orario e la fisiologia lo impongono, credo che si rifugino in apposite bare, all’interno delle quali vengono diffusi rumori di ogni tipo, possibilmente molesti.
Qualsiasi attività svolgano durante il giorno - e anche buona parte della notte- fanno un baccano del diavolo.
Se sono in due, gridano tra loro, spesso accompagnati anche attrezzi di varia natura; se sono da soli, commentano ad altissima voce ogni gesto, come se fossero in presenza di un interlocutore immaginario, molto sordo; se sono in gruppo, gareggiano a chi strepita di più.
Quando il loro frastuono è frutto della sola voce, è sempre ridondante rispetto al messaggio che intendono scambiarsi, in quanto condito con versi animaleschi, sguaiati e insensati, la cui funzione probabilmente è rafforzativa, o forse fa parte di un rituale sessuale, o mira a stabilire ruoli e gerarchie tra truzzi adulti e cuccioli di truzzo.
Per una sorta di horror vacui, non sono in grado di compiere alcun gesto senza vociare, pena la paralisi, ma al contempo solo una percentuale irrilevante di ciò che dicono ha una logica, trova un corrispettivo nel contesto o può risultare di qualsivoglia interesse per chiunque non sia truzzo, e di quel livello di truzzità.
Un truzzo meno truzzo dei Truzzi, infatti, ogni tanto verrebbe attraversato da quell’ineffabile raggio di luce che lo porterebbe a una pausa di riflessione, mentre per i Truzzi ciò non avviene mai.
Ogni attività che i più compiono in modo civile, diventa per i Truzzi occasione per fare rumore, indipendentemente dall’orario e dalla presenza di esseri umani e/o animali. 
Devono gonfiare un canotto alle due del pomeriggio? Lo fanno con un compressore. Arrivano con l’orribile utilitaria rosa nel cortile condominiale? Strombazzano, poi sbattono la portiera e infine emettono un ruggito di richiamo. Tutto così.
Quando le faccende quotidiane esauriscono il loro potenziale fragoroso, inventano pretesti, come montare un canestro in terrazza -per palleggiare a mezzanotte-, spostano dei mobiletti, o accendono il televisore su un canale di cartoni animati solo per invitare il Truzzino a guardarli, urlando anche se il piccolo si trova a pochi passi, oppure chiamano il povero Gianmaria/Skorpion/Pippo, che se ne guarda bene dal farsi vedere e se va scodinzolando nel silenzio dei giardinetti, o anche accendono il motore dell’auto  con la scusa di controllare qualcosa e lo lasciano acceso per mezzora.
Per non dire dei progetti d’avanguardia che il Truzzo realizza in garage, o delle periodiche grandi opere sulla terrazza, per le quali trapano e fresatrice si mettono in moto sempre durante i miei tentativi di pennica pomeridiana, o dopo cena, al buio, offrendo così ulteriore pretesto al Truzzo di gridare ordini alla Truzza che gli regge la luce a sua volta urlando consigli idioti, ai quali lui reagisce con obiezioni altrettanto idiote, per finire in risate e versi primitivi.
Sono sempre indaffaratissimi e certamente insonni.
Nel corso degli anni, ad ogni successiva primavera, la terrazza ha visto un’escalation di opere, strutture e innovazioni varie, perciò se il primo anno hanno messo radici sulla mia tolleranza, nel tempo si sono sempre più allargati, fino ad arrivare a questa estate, durante la quale mi hanno letteralmente logorato i nervi.
Sono arrivata ad un tale limite di sopportazione, che ho iniziato a reagire.
Loro fanno casino, io metto la musica a volume altissimo, cercando di scegliere quanto a mio parere possa risultare più fastidioso per loro in quel preciso momento.
Ieri sera, per esempio, avevano amici truzzi a cena.
Hanno messo su una grigliata, il cui fumo grasso è entrato tutto nella mia camera da letto. Hanno un barbecue mal funzionante e il Truzzo come fochista è negato. Lambiccavano da metà pomeriggio, strillando come aquile.
Ho cominciato con un gruppo post rock parecchio cupo, per sondare il terreno. Ho alzato il volume, ma non ci sono state reazioni apprezzabili.
Allora ho pensato a cosa avrebbe potuto affossare una grigliata con amici in terrazza e sono passata prima a un trip hop abbastanza triste, poi al misticismo new age dei Popol Vuh, infine ai Carmina Burana di Orff.
Si sono spostati dalla parte opposta della casa.
Oggi ho pensato che nel primo pomeriggio ci potesse stare bene Rachmaninov, seguito dai Joy Division per merenda: alle cinque del pomeriggio sono usciti.
Sono rientrati giusto all’ora di cena e hanno preso a usare un attrezzo che fa il rumore di un rasoio elettrico amplificato, allora sono passata dalle delicate ballate dei Giant Sand, al post-punk dei Dream Syndicate, per lasciarli soli con i deliri di John Zorn e Masada String Trio mentre io sono andata a cenare.
Se solo provano ad accendere il televisore sotto l’orrido gazebo, sono pronta con la discografia completa di Frank Zappa o, a mali estremi, Captain Beefheart. 
Ho munizioni per una guerra lunga e snervante, possiedo armi di ogni genere, dal minimalismo elettronico, ai canti dei nativi americani, alla lirica, alla classica fino al free jazz, passando attraverso tutte le declinazioni di cinquant’anni di rock.
Posso sfoderare Janis Joplin come la Tebaldi, gli AC/DC come musica da meditazione indiana, Springsteen come le canzoni della rivoluzione cubana, i Ramones come Antony and The Johnsons, Brian Eno come i cori delle mondine.
Se sarò costretta, sposterò le casse più vicine alla finestra, disponendole in modo che la musica arrivi più direttamente nel cortile condominiale.
Per ogni attrezzo che metteranno in funzione, creerò una playlist schizoide, per ogni cena che organizzeranno in terrazza, farò risuonare musica sempre più struggente.

Li ucciderò, di immeritata bellezza, ma li ucciderò.

-continua-

<Trattandosi di opera di fantasia, ogni riferimento a persone esistenti o a fatti realmente accaduti è puramente casuale>



venerdì 12 luglio 2013

Riccione


Fino alla fine degli anni Sessanta, Riccione era un posto bellissimo: la spiaggia era molto grande e la zona residenziale prossima al mare era caratterizzata da una serie di vialetti paralleli, molto verdi, pieni di pini, lungo i quali si susseguivano le tipiche villette riccionesi, case ad un piano, con il tetto a punta.
La planimetria delle case era del tutto uniforme: un ingresso costituito da un corridoio piuttosto largo, sul quale si aprivano le camere da letto, una vasta sala da pranzo ed una grande cucina; in fondo al corridoio il bagno; intorno alla casa il giardino di ghiaia ombreggiato dai pini, dai quali ogni tanto cadevano a terra, con grande fragore, enormi pigne colme di pinoli.
Al termine di ogni vialetto c'era un caratteristico muretto, che delimitava la ferrovia, che a sua volta separava la marina dal paese, appannaggio dei riccionesi veraci e zona snobbata dai villeggianti, se non nei giorni di mercato.
Prima di accedere alla spiaggia si doveva attraversare il lungomare, elegantissimo, che tagliava tutta la cittadina balneare trasversalmente. 
Riccione aveva conosciuto i massimi fasti nel periodo del fascismo, e ancora ne rimanevano tracce, come testimonianza di un'epoca in cui la buona borghesia intratteneva rapporti sociali eleganti e raffinati, lontana dall’orrore che si stava consumando.
Nell'architettura delle grandi ville sul lungomare si concretizzava il gusto dell’alta società dell'epoca, che aveva rivisitato, solo con piccoli particolari tipici dell'orrido del fascio, le vecchie costruzioni di inizio secolo, splendide dimore Liberty immerse nel verde.
Mussoliniane pure erano invece le Colonie, che tuttavia restavano al margine della zona elegante.
Riccione si estende per un lungo tratto di costa, divisa in varie zone: più a nord, subito dopo le varie frazioni di Rimini, le bruttissime Colonie e un tratto di terra di nessuno, c'è l'Alba, da sempre zona leggermente più popolare, un po' perché la spiaggia era meno vasta, un po' perché più recente e quindi più affollata di alberghi. 
Il porto, con tutta la sua flotta di imbarcazioni dei ricchi villeggianti, ha sempre delimitato il confine sud dell'Alba. 
In mezzo, tra il porto e la zona d'élite, si trova il centro, che si dipana intorno ai due viali principali, Viale Dante e Viale Ceccarini, da sempre teatro del passeggio pomeridiano, degli aperitivi serali, e degli acquisti nei veri negozi, distinti dai bazaar -nei quali si sono sempre vendute più o meno le stesse cose, che tuttavia sembravano più modeste probabilmente solo per via del prezzo più basso. 
La zona a sud di Viale Ceccarinì è ancora la favolosa Abissinia, che ospitò il Duce e tutta la sua corte di gerarchi e di buona borghesia fino dagli anni Venti.
Fino alla fine degli anni Sessanta in Abissinia non esistevano molti alberghi, se non quelli elegantissimi, come il Grand Hotel o il Des Bains, o quelli più moderni affacciati sul lungomare, prestigiosi per la posizione e, di conseguenza, per le frequentazioni. 
Lungo i vialetti esistevano invece le pensioni, che godevano di un certo prestigio anch'esse, in quanto caratterizzate da gestione familiare, accoglienza tranquilla, cucina romagnola di ottimo livello e servizi riservati sulla spiaggia. Anzi, per gli habitués era anche una apprezzata forma di snobismo alloggiare in una piccola pensione, probabilmente perché i rapporti personali riuscivano in questo modo a mantenere quella cordialità un po' distante, che le famiglie bene ostentavano con i propri domestici in città. 
Altra cosa, infatti, era essere serviti a tavola da una formosa signora Irma, che si faceva chiamare per nome e indossava il grembiule da cucina, rispetto all'avere rapporti formali con asettici e sconosciuti camerieri stagionali.
Un'altra forma di snobismo che Riccione ha mantenuto da allora è l'organizzazione della spiaggia: non ci sono ombrelloni, se non in un'unica fila, quella più prossima alla strada, dove non si respira per l'afa. 
A Riccione, come in certe località della Versilia, altrettanto snob, ci sono le tende, lunghe file di riquadri coperti da tendoni sorretti da quattro paletti, di colore diverso per distinguere i Bagni, rigorosamente numerati e altrettanto rigorosamente gestiti dagli stessi bagnini, o dai loro eredi, da oltre cinquant'anni. 
Gli habitués, quelli autentici con almeno quarant’anni di soggiorni riccionesi, hanno sempre avuto a noleggio la stessa tenda, ovviamente nella prima fila vicino al mare, naturalmente confinante con quella delle famiglie appartenenti al medesimo branco e, com'è logico, con la stessa dotazione di lettini e sedie - quelle scomodissime da regista, perché la sdraio a Riccione non è mai piaciuta.
Ancora oggi è impossibile far spostare alcune famiglie dalla tenda numero 3 a quella numero 4, perché l'autentico villeggiante riccionese deve sempre poter godere della medesima prospettiva rispetto al mare e alla popolazione dei senza tenda, che al giorno d'oggi costituiscono la maggioranza dei bagnanti, in quantità che diventa inquietante durante i fine settimana. 
Naturalmente anche chi prenotava la tenda solo per appoggiare i giocattoli ma trasportava il lettino in riva per godere della brezza marina, come la mia mamma e la mia zia ai tempi delle nostre vacanze dorate, non si spostava mai da quella posizione prossima al bagnasciuga: impensabile un trasloco dalla destra alla sinistra -o viceversa- della passerella che separa a metà la fila delle tende in ogni stabilimento balneare -termine che a Riccione non si è mai usato, sostituito da " Bagno" anche nella pubblica dicitura e nelle piantine per i turisti (per gli habituès gli tutti gli altri sono turisti).

La famiglia di mio padre si era trasferita alla "Perla verde dell'Adriatico" più o meno dopo la fine della guerra, spostandosi dalla Versilia, anzi, per essere precisi, dalla zona tra la Versilia e le Cinque Terre, breve tratto di costa tirrenica cui era originaria la mia nonna paterna, zona se possibile ancora più snob.
Mio padre aveva ricevuto a Riccione la sua prima educazione sentimentale, grazie ad una certa facilità a rapportarsi con le villeggianti tedesche. 
Durante la guerra, infatti, il buon rampollo aveva ricevuto le usuali lezioni di pianoforte e di lingua tedesca, che nell'ottica di certe famiglie era destinata a diventare la lingua del futuro. Non si ricordava che una frase, che non saprei scrivere, ma che costituiva un invito diretto a qualche teutonica signorina ad andare con lui a passeggiare. 
I miei nonni avevano le loro amicizie, le stesse di Bologna, e mio padre le sue, le stesse di Bologna.
Perché caratteristica dei bolognesi è trasferire tutte le proprie abitudini in qualunque luogo si trovino, altrimenti si perdono.
I nonni affittavano sempre la stessa casa, quella dei Bianchini, in fondo ad un viale bellissimo e molto tranquillo. 
Il muretto della ferrovia costituiva uno dei confini del nostro giardino, ma i treni non davano alcun fastidio, in quanto diventavano anch'essi un'abitudine e come tale rassicuravano, si era certi di essere a casa. 
La prima volta che sono stata a Riccione ero dentro la pancia della mamma. 
La seconda volta, l'anno successivo, avevo cinque mesi. 
Di quei primissimi anni non mi restano ricordi, se non quelli delle fotografie, mentre ricordo abbastanza bene l'estate trascorsa con i nonni alla pensione Esedra, l'anno in cui nacque mio fratello. 
Veramente mi ricordo solo le situazioni che sono rimaste immortalate nelle foto e l'odore dei baffi del nonno, che era buono e bellissimo e si impomatava capelli e baffi con la brillantina. 
L'odore del nonno è uno dei ricordi più belli di tutta la mia infanzia, forse perché lui mi adorava e mi teneva sempre in braccio, coccolandomi e presentandomi in giro come "quel fenomeno della sua nipotina"- una femmina! finalmente, dopo due figli maschi tanto diversi da lui. 
Ho solo ricordi dolcissimi di lui, morto quando avevo otto anni, proprio mentre ero in villeggiatura a Riccione, ormai quasi ammattito a causa dei postumi di una ferita di guerra, una scheggia che gli era rimasta piantata nella schiena durante la campagna d'Africa.
Mio nonno mi faceva fotografare sempre, ogni occasione era buona, anche se ero una bimba magra e bruttina.
Sulla spiaggia passavano in continuazione fotografi con ogni sorta di animali: possiedo fotografie con una capra, con due leoncini, con un gruppo di cocker, con una scimmia, a cavalcioni di un enorme elefante di cartapesta, in piedi su un gigantesco drago sempre di cartapesta e, soprattutto le fotografie hawaiane, realizzate dal fotografo di Foto Riccione, vicino ad una finta capanna di giunchi, con un finto tetto di finta paglia, indossando un gonnellino di finte banane, fingendo di suonare una chitarra finta o di assaggiare una finta noce di cocco. 
Anche i miei figli sono stati fotografati da quello stesso fotografo nelle medesime pose, ed io stessa ho indossato il gonnellino di finte banane anche da adulta, durante la realizzazione di grottesche foto di gruppo, scattate di fronte ad una folla di curiosi che si sbellicavano dal ridere.
Degli anni successivi mi ricordo i fatti, molto più nitidamente.
Abitavamo sempre nella stessa casa, sempre nello stesso viale ed avevamo un gruppo di amici, tra i quali mio fratello e Libero, che era riccionese, erano i più piccoli e i più feroci.
In una villetta vicina alla nostra abitavano Ottavio e Graziella, due fratelli, credo torinesi, odiosi. 
Ottavio, che era il più grande di tutti, organizzava ogni anno una frenetica gara di pinoli, che vinceva regolarmente negandoci l'accesso al suo giardino, sul quale cadeva la più spettacolare quantità di pigne che mente umana potesse immaginare. 
Lui e sua sorella si limitavano a raccogliere quello che la vegetazione del viale elargiva loro, mentre noi, poverini, ci sguinzagliavamo in tutti i viali vicini, correndo come forsennati a piedi o in bicicletta, nel vano tentativo di riempire almeno un sacchetto di pinoli grande come quello che esibivano loro. 
Devo confessare che io ho sempre avuto il sospetto che Ottavio cominciasse a raccogliere pinoli dai primi di giugno per poterci umiliare alla fine di agosto, epoca della gara, mentre noi - bambini sani- ci facevamo ogni giorno solenni scorpacciate seduti per terra a pestare il guscio dei pinoli coi sassi. 
Le gare finirono quando qualcuno, forse io stessa, accusò pubblicamente Ottavio di barare e lui se ne risentì molto, mentre quel castoro di sua sorella piangeva disperata, sentendosi probabilmente smascherata. 
Poi ricordo la rete di recinzione del giardino: mia zia con le mie cugine abitavano in una casa nel viale parallelo al nostro, nell'identica posizione rispetto alla ferrovia, in modo che la schiena di casa nostra si appoggiava sulla schiena di casa loro. 
Praticando un buco nella rete di recinzione, mio fratello ed io ci trovavamo nel giardino delle nostre cugine, situato nell'altro viale. 
Quanto ci siamo sentiti furbi! 
Passare attraverso la rete, prima che ci scoprissero, ci dava la sensazione di essere folletti, che potevano sbucare di qua o di là passando attraverso la materia.
Il trucco fu scoperto abbastanza in fretta, ci prendemmo una solenne dose di scapaccioni, ma la breccia nella rete non fu mai più chiusa, anzi, venne ufficialmente aperto un passaggio per consentire alla mamma e alla zia di passare liberamente da una casa all'altra.
Un altro punto di riferimento era il muretto della ferrovia, sul quale potevamo salire a cavalcioni, con maggiore agilità ad ogni anno che passava. 
Esisteva il veto assoluto di scavalcarlo e di avvicinarci alle rotaie, cosa che noi facevamo sistematicamente, dando conferma a tutte le teorie che affermano che se vuoi che un bambino metta in atto un comportamento scorretto, pericoloso o quant'altro, il modo migliore è imporgli il divieto assoluto di farlo.
Ad un certo punto però, mio fratello, Libero e mia cugina Silvia, i più piccoli, cominciarono a mettere grandi sassi sulle rotaie, aspettando con ansia di veder deragliare i treni stando seduti sul muretto: grazie al cielo questi tentativi di strage erano attuati nella maniera goffa dei bambini, nessun sasso schizzò mai dalle rotaie alla testa dei tre piccoli delinquenti e un solerte controllore venne a fare un serio discorso con le madri dei suddetti delinquenti, che si presero, come al solito, un rosario di scapaccioni. 
All'epoca le prendevamo spesso. 
Abbiamo anche guardato la luna a cavallo del muretto di Riccione, quando Armstrong vi ha posato piede il giorno successivo al settimo compleanno di mio fratello: eravamo gli unici a guardare quel faccione luminoso e sorridente, mentre tutti gli altri erano in casa incollati davanti al televisore. 
Mio fratello ed io abbiamo sentito un grande urlo collettivo, mentre guardavamo il cielo rapiti dall'idea che qualcuno stesse passeggiando lassù.
L'ultimo splendido ricordo riccionese della mia infanzia è quello del pranzo in spiaggia. 
La mamma e la zia, dopo confabulazioni segretissime, alla sera ci preannunciavano che all'indomani, come premio per la nostra bontà, sperata ma mai ottenuta, avremmo fatto un picnic in spiaggia. 
La notte ci prendeva una eccitazione da non dormire.
Alla mattina presto, mentre una delle due sorelle andava a fare la spesa, l'altra si occupava dei bambini e cuoceva le frittate, che dovevano riempire una parte dei panini destinati al pranzo.
Seguiva un rituale di preparazione dei panini con ogni sorta di farcitura, della frutta lavata e tenuta in acqua e ghiaccio, dei sacchetti che venivano riempiti e che nascondevano queste vivande un po' segrete, un po' conosciute e attese, che comunque sempre ci lasciavano stupefatti per varietà e abbondanza.
Accampati sotto la tenda ci abbuffavamo di tutta questa ricchezza, guardando l'enorme spiaggia vuota, il mare che allora era pulito, la distesa di tende gonfiate dal vento del primo pomeriggio e ci sembrava che tutto questo fosse solo nostro, che noi fossimo i padroni di quel mondo dorato, di quelle mamme buonissime, di quei rituali che avrebbero dovuto fermare il tempo.

Invece il tempo è andato avanti, la zia è morta a Riccione ventisei anni fa, neanche cinquantenne, la mia mamma cinque anni dopo, il mare è sporco, Riccione è piena di gente, non appartiene più a nessuno, neppure a quelli che si ostinano a non cambiare la loro posizione sulla spiaggia, neppure alle amiche della mamma e della zia, che continuano ad andare lì a far finta di fare le stesse cose, e che quando ci andavo ancora, ogni volta che mi incontravano mi dicevano che quando sono con i miei figli sono uguale alla mamma e, regolarmente, ad ogni picnic in spiaggia, realizzato consumando le ottime piadine del bar, mi facevano piangere parlandomi di lei. 
Non riesco più a restare a Riccione molto a lungo, ogni volta che ci vado dentro di me si riapre un grande libro di ricordi che mi spacca il cuore, ma dopo poco vorrei fuggire. 
Un tempo andavo ogni stagione a fare il pellegrinaggio davanti alla casa dei Bianchini, ora restaurata, e alla casa dove abitavano la zia e le mie cugine, occupata da chiassosi venditori di cocco che l'avevano completamente distrutta.
Per tanti anni ci sono andata con i miei figli piccoli, volevo cercare di lasciare loro un po’ di ricordi così belli, ma gli ho potuto offrire solo un enorme ed orribile carnaio. 
Eppure loro hanno sempre amato moltissimo Riccione perché, evidentemente, non è tanto importante quello che vedi, ma gli occhi con cui lo guardi.


Riccione, 1964
Mamma, Cecco ed io




<un grazie a Fabio, il mio meraviglioso amico per il quale questo ricordo è stato scritto, sotto forma di lettera>





mercoledì 26 giugno 2013

Bidelle monelle, bidelle modelle

Fiorenzuola, Dicembre

Caro Spartaco, 
          quest’anno sono in servizio in una scuola elementare molto piccola e tutta al femminile, nella quale l'ambiente è piuttosto casalingo: abbiamo una cucina dove prepariamo il caffè e consumiamo la nostra merenda, possiamo confezionarci panini, c'è un frigorifero e c’è pure un fornello da campeggio. 
Naturalmente nella scuola lavorano anche alcune bidelle, con le quali il rapporto è molto informale perché ci si racconta fatti personali, ci si dà del tu, si ride e si scherza come appartenenti tutte alla medesima famiglia. 
Benché come occasioni di socializzazione non siano il massimo, tutto sommato mi piace, da un lato perché in un ambiente piccolo è sempre positivo avere rapporti amichevoli con tutti, colleghi e personale di servizio, dall’altro e soprattutto perché col mio carattere ritengo che sarei più adatta alla vita di Samoa che non ad un ambito gerarchizzato. 
Del resto la correttezza non è mai venuta meno: sapendo che le bidelle hanno mansioni di servizio ben precise e non certo quelle di stare dietro alla confusione che seminano le maestre quando fanno merenda, sono solita lavare il bicchiere in cui bevo, non lasciare carta in giro, vuotare il portacenere e prendere la scopa per raccogliere le briciole che cadono inevitabilmente dai miei panini con burro e marmellata. 
Martedì però ho fatto una figura da chiodi con una delle bidelle: lei e un'altra, nota erotomane che fiacca quotidianamente il marito per impedirgli di tradirla, sono venute da me con un opuscoletto pubblicitario di un parrucchiere per uomo, raffigurante un giovanotto del tipo "braccia rubate all'agricoltura" in posa da sirenetto e capello fluente. 
L'ho guardato distrattamente, visto che mi si chiedeva un parere:
"Eh, com'é? eh, eh...?"
Ho risposto secca : "Non mi piace" 
Poi, guardandolo bene, e poiché ho passato la soglia della cinquantina e quello di anni ne avrà avuti al massimo trenta, ho aggiunto : 
" Beh, due botte me le farei anche dare". 
La bidella più anziana mi ha fulminato con un: " E' mio figlio". 
Nel tentativo di riparare al danno l'ho guardata sconcertata e sono stata solo in grado di dirle: 
"Oh, beh, ora sai che mi farei dare due botte da tuo figlio". 
Fortunatamente la bidella madre del sirenetto e la bidella erotomane l'hanno presa in ridere, così siamo scivolate in un acceso dibattito circa il fatto che a me attizzano uomini decisamente sul bruttaccio, che un tipo come Depardieu mi provoca accelerazione sanguigna e palpitazioni e che gli uomini "tanto belli, come tuo figlio- che ruffiana schifosa- mi piace contemplarli ma in fondo mi sento più portata a palpeggiare qualcuno di più grasso e un po' più bestia". 
Era un falso, ma già un'ombra sulla mia moralità si è insinuata nell'animo delle bidelle.
Venerdì invece è successo un vero e proprio fattaccio.
Bisogna sapere che esiste una circolare della A.S.L. che impone di gettare nella spazzatura tutto ciò che avanza dal pranzo in mensa o dalla merenda, impedisce di tenere nel frigorifero alimenti freschi (latte, formaggio, giammai uova né tantomeno verdura) e preclude ogni possibilità di introdurre nell'edificio scolastico alimenti o bevande se non quelle provenienti dalle cucine comunali.
Le bidelle ignorano sistematicamente queste norme, conservando gelosamente ogni sorta di derrata alimentare: cioccolata, grissini, orrende merendine, frutta, formaggini, stracchino portato da casa, nonché avanzi del pranzo del giorno precedente che consumano loro stesse in cucina per non doversi pagare il pasto, di cui non hanno diritto, in quanto turniste.
Giovedì alla mensa avevano servito a novanta bambini ignari e abituati a vivere di mulinibianchi e kinderpinguí, un orripilante cavolfiore bollito, che evidentemente era risultato molto appetibile per le bidelle, che ne avevano conservato una gamella per il loro pranzo del giorno successivo. 
Venerdì la gamella di cavolfiore faceva bella mostra di sé sul termosifone della cucina. 
Quella mattina erano giunti a scuola alcuni incaricati del Comune che dovevano verificare le ragioni del disgustoso effluvio di discarica e oltretomba che ormai ci tormenta da settimane. 
Nessuna di noi pensava che avessero qualcosa a che fare con la mensa, e del resto questi erano già entrati nella fornitissima cucina, verificando con i loro occhietti astuti ogni sorta di irregolare scorta di cibarie, cavolo compreso. 
Io avevo appena messo in punizione un mio alunno, affetto da paraculaggine di grado medio-grave, perché mi aveva tirata scema per due ore durante le quali gli avevo fatto vedere solo l'1 e il 2 e lui continuava a dire qualunque numero, compresi quelli oltre la decina, le centinaia e il fantastilione, piuttosto che il 2. 
La punizione consisteva nel non fare merenda finché non avesse finito di scrivere una pagina intera di 2, che poi avrebbe dovuto leggere fino a quando non si fosse condizionato al suo riconoscimento come un cane di Pavlov. 
Il concetto di quantità l'ha capito benissimo, quindi si comporta così solo per mettermi alla prova. 
Il piccolo non mangia mai il secondo, né la verdura, ma spolvera solo enormi quantità di pasta. Per fargli assaggiare il cavolfiore avevamo dovuto nasconderglielo alla vista infilato dentro a una pagnotta.
Quando il poverino è giunto trionfante col suo quaderno di 2, d'accordo con un'altra collega gli ho presentato con aria soave la gamella di cavolfiore, dicendogli:
"Ecco, caro, ora ti posso dare la tua merenda" 
In quel momento esatto uno degli incaricati del Comune ha cominciato ad inveire: 
"Dove va lei con quel cavolo?"
Al che ho risposto candidamente che stavo facendo uno scherzo. 
La cosa è poi finita lì, ma dopo un po' la madre del sirenetto e l’erotomane mi hanno fatto notare che quelli del Comune avrebbero sicuramente trovato da dire per detenzione illegale di cavolfiore bollito in un plesso di scuola elementare. 
Mi sono scusata dell'involontaria gaffe, spiegando che non avrei mai potuto immaginare che costoro si occupassero al contempo di odor di fogna e di cavolo bollito (e qui risiede certamente un mio errore, determinato dal fatto che mi era sfuggita l'evidente consequenzialità tra le due cose), le bidelle sono state molto comprensive e l'episodio sembrava chiuso. 
Quando è arrivata la terza bidella, quella pelosa, è successo invece un finimondo: mi ha rinfacciato meschinità irripetibili, ha tentato di scatenare i miei sensi di colpa sottolineando che loro, povere bidelle, erano costrette a tenere da parte avanzi per potersi nutrire (in verità due sono grasse e la terza è consumata dalla frenetica sessualità), che lei, la bidella pelosa, aveva battagliato per farmi ottenere buoni pasto per motivi di servizio in caso di riunioni (e che? forse non mi spettano?), che in vent’anni di onorato servizio aveva ricevuto solo tre note disciplinari e che ora avrebbe sicuramente ricevuto la quarta, che avrebbero dovuto subire ispezioni di ogni tipo, dai NAS alla DIGOS, per verificare che in frigorifero non ci fossero stracchini non regolamentari e così via. 
Mi sono sentita un po' mortificata per aver involontariamente portato alla luce una loro evidente irregolarità e mi sono scusata, benché fosse già chiaro che mi dispiaceva e che non l’avevo fatto apposta, ma non ho avuto cuore di dire che la colpa non era tanto mia che avevo reso palese la presenza illecita di un cavolfiore bollito del giorno prima, quanto loro che non l'avevano gettato nella spazzatura, come da Circ.Min. e Reg.Com. n°XYZ/19XX. 
Morale : le altre bidelle mi salutano, ma la pelosa non più. Mi guarda con grugno truce ed è evidente che ora mi odia. 
Ne sono certa da due indizi inequivocabili: ha gettato nel lavandino tutto il latte che mi ero portata da casa per farmi il cappuccino -guarda caso solo il mio e non quello della mia collega Mirella, che usa una marca diversa- e improvvisamente, dopo anni di tolleranza, è comparso un cartello enorme in cucina che invoca una Circ.Min. e un Reg.Com. decretanti l'assoluto divieto di fumare nei locali della cucina e della mensa
Giusto, giustissimo, se non si può fumo all'aperto senza minimamente protestare : dura lex, sed lex, anche se si tratta di un atto di ripicca da parte della bidella pelosa, che si fa scudo della legge per punirmi del fatto di averle impedito di continuare a conservare abusivamente cavoli ed altre delizie simili.
Nell'ottica della guerra fredda, stamattina una mia collega mi ha proposto di presentarci a scuola con un trancio di pizza alle cozze, oppure con il classico pesce finto in salsa tonnata con occhio botulinico, ma io, con il mio carattere samoano, credo che glisserò nell'attesa che la pelosa si calmi da sé, magari conservando nell'armadietto delle scarpe un pentolino di prelibata verza bollita alla faccia delle Circ.Min e dei Reg.Com.
Spartaco amato, trovo tutta la questione una pura follia. 
Mi dispiace se le bidelle avranno qualche nota di rimprovero, ma certo non posso sentirmi colpevole se in maniera del tutto involontaria ho contribuito a far scoprire un loro comportamento evidentemente irregolare, che nessuna mai avrebbe sottolineato, né tantomeno denunciato, nell'ottica della massima e reciproca tolleranza. 
E, comunque, il cavolo era lì, ben in vista, occhieggiante dal suo pentolino.
Tutto questo parlar di verdure mi ha mosso appetito, perciò ti bacio e vado a cucinare due broccoli. Se ne avanzano, li terrò per la merenda di domattina.
                                Ti abbraccio, C.

                                                               


Fiorenzuola, oggi, Gennaio.

Spartaco!
Premessa doverosa: la bidella pelosa ha ripreso a salutarmi e a mostrarmi una singolare cordialità, pur continuando a fissarmi con espressione di sommo disprezzo e rivolgendomi la parola con voce leggermente alterata da un falsetto isterico. Tuttavia mi parla e mi racconta di nuovo fatti suoi.
Stamattina in compenso era incavolata nera la bidella erotomane - grazie al cielo non con me- per una questione ancora più imbecille di quella del cavolo bollito.
E' giunta a scuola furibonda recando con sé un enorme sacchetto colmo di scatole da scarpe, a loro volta contenenti le "calzature regolamentari" per bidelle, creazioni di pregevole design e alta tecnologia, obbligatorie a pena di sanzione per i piedi del personale di servizio nella scuola.
Si tratta di sandali bianchi in similpelle, realizzati secondo i dettami del prêt-à-porter griffato A.S.L., quindi con una certa pretesa di sobria eleganza : traforo discreto, piccolo motivo intrecciato a fasciare il collo del piede e zeppa di circa cinque centimetri.
Ciò che le rende indispensabili alle bidelle è nientepopodimeno che la punta interamente foderata in ferro.
Nell'ottica della sicurezza sul luogo di lavoro infatti, qualche intellettuale del Comune ha ritenuto doveroso proteggere le estremità inferiori del personale ATA da accidentali cadute di lavagne, che come tutti sanno cadono spessissimo e sempre sui piedi, anzi, sempre e solo sulla punta dei medesimi, perché nell'ipotesi che la lavagna cadesse sul tallone, che resta nudo, addio tendine d'Achille, ma una calzatura più sicura in questo senso sarebbe poi venuta meno ai dettami della moda del settore. 
Naturalmente la protezione riguarda anche cadute di piatti, accidentali pestate, ribaltamenti di banchi, crollo di infissi e smottamenti delle montagne di libri accumulati sulle cattedre: questi eventi, sulla cui frequenza non esiste alcuna statistica, coinvolgono invece con matematica sicurezza sempre e solo la punta dei piedi.
In effetti tempo fa si verificò un fatto del genere, che colpì un tal Bruno, bidello lamentevole che accusava sempre dolori immaginari: gli cadde effettivamente una lavagna su un piede, il poveraccio cominciò a urlare, ma fu sbeffeggiato dalle crudeli colleghe che credettero al suo reale dolore solo quando gli fu diagnosticata al pronto soccorso una frattura multipla.
Resta comunque l'unico episodio di cui si ha memoria.
Il fatto è che le calzature di sicurezza sono state progettate in un unico modello standard per bidelle di formato estremamente diverso, perciò ciascuna di loro, per un motivo o per l'altro, si trova impossibilitata ad usarle.
La madre del sirenetto, per esempio, è affetta da una leggera asimmetria delle gambe, impercettibile e corretta con adeguati plantari, ma che non le permette di indossare scarpe con la zeppa, perché perde l'equilibrio e si storce le caviglie. Pertanto, la madre del sirenetto sarebbe più sicura sul lavoro -che ne so- con un paio di calighe romane, che non le proteggerebbero l'alluce nel caso di caduta di lavagna, invero rarissimo, ma la preserverebbero dal caso, assolutamente certo, di quotidiane cadute dalle zeppe.
La pelosa, a sua volta, ha piedi che sembrano pani pugliesi, perciò la calzatura regolamentare le comprime il collo del piede, bloccandole la circolazione: è evidente che nel caso su un miliardo che crollasse una finestra, il suo alluce sarebbe salvo, però nessuno le potrebbe evitare il rischio di trombosi, statisticamente più probabile.
Del resto una scarpa con punta rinforzata in ferro non si può neanche sperare che si ammorbidisca come le scarpette da danza classica.
Credo, oltretutto, che tali scarpe siano anche pericolose per l'incolumità degli altri frequentatori della scuola: considerato per esempio il carattere pochissimo gioviale della bidella pelosa, se quella in un momento di stizza, statisticamente frequentissimo, molla un calcio sul sedere a qualche bimbetto, rischia di fratturare alla creatura tutte le ossa del bacino.
Nell'ottica della sicurezza sul posto di lavoro ritengo a questo punto che le scarpe di ferro spettino anche alle maestre, che si avvicinano pericolosamente alle lavagne molto più delle bidelle; inoltre avremmo diritto anche ad un elmetto, nel caso la lavagna cadesse non in verticale, ma con apertura a libro, schiacciando la testa della maestra che, seduta alla cattedra, ha la lavagna medesima alle spalle.
Poi sarebbero indispensabili delle ginocchiere, perché i bambini sono bambini e spesso un calcio lo si becca; sarebbe opportuno anche dotarci di mascherine antipolvere perché i gessi a lungo andare depositano su bronchi e polmoni strati e strati di subdolo materiale; poi dovrebbero fornirci guanti anallergici per evitarci irritazioni da gesso sulle mani, rottura delle unghie e deterioramento dello smalto; infine bisognerebbe preventivare per gli insegnanti maschi una conchiglia da rugby a difesa delle palle (vattelapesca quale traiettoria possa prendere la caduta di una lavagna e sarebbe obiettivamente imbarazzante, in una scuola in cui si va in giro con l'elmetto, le ginocchiere, la mascherina e le scarpe di ferro, ritrovarsi con un collega coi coglioni ridotti ad un paté).
Chi poi, avesse in classe bambini caratteriali o violenti, dovrebbe aver diritto ad una maglia di acciaio come minimo, forse anche di un giubbotto anti-proiettili, ma quello servirebbe a tutti, metti caso che qualche malvivente voglia entrare a scuola per rubare le scorte di cavolfiore o le stesse lavagne.
In ultimo vorrei parlare di virus e batteri: perché non dotarci, in ingresso e in uscita, di docce disinfettanti o di camere di quarantena come si fa per gli astronauti?
Mi rendo conto solo ora che faccio un lavoro pericolosissimo e che la mia salute e la mia incolumità sono quotidianamente minacciate da eventi imprevedibili.
Ho paura, molta paura.
Pensa se domani mi dovesse esplodere la cartuccia della biro, mi spruzzasse l'inchiostro negli occhi ed io, resa quasi cieca, nel tentativo di raggiungere il bagno sbattessi contro l'attaccapanni fratturandomi alcune costole, poi cadendo all'indietro rovesciassi l'armadietto in cui sono contenute le puntine da ingegnere le quali, sparpagliandosi per terra si conficcassero nelle mani della madre del sirenetto, a sua volta scivolata a causa della zeppa delle scarpe di sicurezza, e le scarpe stesse, con la loro punta di ferro, entrassero in collisione col mio cranio procurandomi un forte trauma... può succedere sai, davvero.
Sono terrorizzata. Vado ad assumere alcune gocce di ansiolitico per tentare di dormire...
                            Mi manchi, C.



Fiorenzuola, un giorno come un altro, Febbraio.

Mio caro Spartaco, 
               sono rientrata scuola dopo una lunga assenza e le colleghe mi hanno detto che il clima è insostenibile, perché da qualche tempo le bidelle sono in fermento, nervose ed intrattabili. 
E' arrivata infatti la fornitura di grembiuli nuovi, come ogni due anni, e anche tralasciando il fatto che si tratta delle divise ordinate sei anni fa, le bidelle non sono per niente soddisfatte. 
Anzitutto possiedono ancora grembiuli mai usati della fornitura precedente, materiale di ottima qualità indistruttibile nel tempo, tuttavia norme rigidissime vietano severamente l'uso delle vecchie divise dal momento in cui vengono consegnate quelle nuove, che nella fattispecie sono molto peggiori delle precedenti. 
Bisogna che tu sappia che la divisa regolamentare per bidelle prevede calzature e grembiule: le prime sono state accantonate in quanto camminare con sandali dalla punta in ferro dava loro la sensazione di avere incudini ai piedi; i secondi, cioè i gembiuli attuali, sono effettivamente  importabili. 
Il personale ausiliario viene fornito infatti di due tipi di grembiule: uno bianco da utilizzarsi durante il servizio in mensa, l'altro colorato, più sbarazzino, per svolgere tutte le restanti mansioni. 
Le vecchie divise bianche erano larghe e comode, per poter essere indossate sopra abiti e altri grembiuli; quelle colorate erano di tela a righe verdi, molto morbida e fresca al tatto, con colletto e linea dritta: sobrie ed essenziali. 
Quando sei anni fa si trattò di scegliere le divise dal catalogo, erano previsti solo grembiuli tinta unita, perciò la pelosa - che di sua beltà assai si fida- convinse le colleghe a optare per un simpatico verdino, che dal campione di stoffa pareva di una riposante tonalità pastello. 
Non era stata fornita invece alcuna indicazione sul modello, nella convinzione che sarebbe rimasto invariato. 
La nuova fornitura, confezionata da una ditta che ha vinto inspiegabilmente l'appalto con il Comune pur praticando il peggior rapporto qualità-prezzo, ha riservato parecchie sorprese. 
I grembiuli bianchi sono di un modello svasato e aderente, tipo quello delle infermiere dei fumetti per militari, adatto quindi a silohuette slanciate: tale modello può essere indossato solo dall'erotomane, che è giovane, sottile e ben fatta. La madre del sirenetto è decisamente sovrappeso ed ha un seno enorme, la pelosa ha la corporatura di Hulk Hogan, il lottatore di wrestling. 
Per di più sono state consegnate solo taglie 48, larghe all'erotomane e minuscole per tutte le altre. Sono state gentilmente restituite e chieste, con un certo ottimismo, alcune taglie 52, che indossate dalle due bidelle più corpulente fanno un effetto guaina impedendo la fluidità dei movimenti durante il servizio a tavola.
L'orgoglio femminile ha impedito loro di richiedere, con un atto di onestà intellettuale, taglie 56, che sarebbero state molto più congrue, soprattutto dopo l'inevitabile restringimento dei grembiuli conseguente al primo lavaggio in acqua bollente. 
I grembiuli verdi sono piuttosto singolari. 
Anzitutto gli stilisti del Comune hanno disegnato un modello senza colletto e con un carrè alto, circa a metà seno, tipico premaman, che indossato dalle bidelle più robuste produce l'effetto di far assomigliare la madre del sirenetto a un capanno degli attrezzi e la pelosa ad un gazebo. Inoltre il seno prorompente del nostro amabile personale, sottolineato dalla ricchezza del carrè, inevitabilmente riduce la lunghezza, pertanto i grembiuli risultano pure cortissimi. 
Il colore, evidentemente ingannevole sul campione, o modificato in sede di confezionamento, si è rivelato lo stesso verde smeraldo dei camici da sala operatoria, a lungo andare anche fastidioso per la vista. La stoffa, di qualità pessima, è quella tipica tela rigida che fa freddo d'inverno e caldo d'estate: al primo lavaggio si è stinta, a chiazze, producendo un bizzarro effetto maculato, tipo tuta mimetica. 
Dopo una serie di ingiuriose trattative telefoniche con la responsabile del Comune, la madre del sirenetto ha ottenuto di poter restituire i grembiuli verdi, fornire un campione della stoffa a righe di quelli vecchi e far confezionare capi da lavoro di qualità migliore, ma purtroppo non c'è stato modo di modificare il modello della divisa, se non aggiungendo una spanna in lunghezza. 
Attualmente tutti i nuovi grembiuli giacciono inutilizzati negli armadietti e sono ancora in uso quelli vecchi, ma le bidelle vivono nel terrore che, alla scadenza prevista, arrivino anche le altre divise, quelle ordinate quattro anni fa, nonché quelle di due anni fa: un centinaio di capi da lavoro di taglie sbagliate, colori improponibili e modelli fantasiosi. 
Tutto ciò darebbe luogo infatti ad una situazione curiosa in cui, stante l'obbligatorietà di indossare solo la divisa nuova, le bidelle si troverebbero paradossalmente nella totale deregulation , potendo infatti utilizzare un grembiule di una qualsiasi delle ultime forniture arrivate, diverse tra loro per foggia, colore e qualità. 
Tra l'altro quest'anno sono obbligate a scegliere e ordinare le divise che arriveranno tra due anni, e mi diceva la madre del sirenetto che gli anni passati avevano tentato di farsi mandare alcuni grembiuli corti, tipo giacchetta, che venivano confezionati con stoffa a fiori di varie tinte.
L'intenzione, dal momento che erano molto graziosi ma inutili a scuola, era quella di portarli a casa e tenerseli per uso personale, ma naturalmente quelli del Comune se ne sono accorti, e forse questa fornitura di dubbio gusto, pessima qualità e scarsa praticità costituisce una sottile punizione per le intenzioni truffaldine delle bidelle. 
La madre del sirenetto lamentava inoltre di non poter più valutare, grazie all'ampiezza delle nuove divise, eventuali segni di ulteriore aumento di peso, mentre con quelle vecchie bastavano un paio di chiletti in più per far saltare i bottoni: l'argomentazione mi è sembrata francamente un po' debole, ma lei era così convinta delle sue buone ragioni che non me la sono sentita di suggerirle l'uso di una comune bilancia pesa persone. 
Poiché le ho viste seriamente affrante, ho cercato di far veder loro i lati positivi della faccenda, quali la migliore circolazione d'aria sotto il grembiule in estate, ma mi veniva da ridere perché ho visualizzato le bidelle portate via da una folata di vento che gonfiava le divise come mongolfiere, benché in questo caso si sarebbero rivelate utili le scarpe in ferro, come zavorra. 
Ho reso partecipe la madre del sirenetto di questo mio pensiero, cosicché lei mi ha confessato che la settimana precedente le era caduto non so cosa su un piede, quando lei non indossava il sandalo regolamentare, le era venuta un'unghia nera ma non aveva potuto dire nulla a quelli della A.S.L., altrimenti oltre al danno avrebbe ricevuto anche una multa. 
Abbiamo riso così tanto che il giorno dopo, visto che ho avuto un giramento di testa, la pelosa ha estratto da un nascondiglio segreto della cucina un grande barattolo di Nutella, mi ha consegnato un cucchiaio e mi ha lasciata sola.
Ora mi vogliono molto bene, in fondo sono l'unica maestra che ascolta i loro problemi e mostra un po' di sensibilità per le loro questioni di servizio. 
Se un giorno dovessi venirmi a trovare, mio adorato Spartaco, fai finta di non sapere nulla, mi raccomando.
Anzi, magari fai loro un complimento per le divise tanto carine... 
                                        A presto, C.

<Trattandosi di opera di fantasia, ogni riferimento a persone esistenti o a fatti realmente accaduti è puramente casuale>