domenica 30 dicembre 2012

Burle letterarie


Una decina di anni fa, grazie ad un’amica e collega sagace prosatrice e ottima poetessa, mi iscrissi ad un sito di scrittura creativa, dove cominciai a pubblicare i miei prodotti “letterari”.
Ero in buona compagnia di tanti altri dilettanti, alcuni di gran talento, la maggior parte di buona volontà.
Per me fu un passo molto importante, perché significò tirar fuori dal cassetto pagine e pagine scritte con divertimento e passione, ma fino a  quel momento tenute solo per me, per insicurezza e pudore.
Il sito era molto carino e c’era la possibilità di votare e commentare gli scritti degli altri.
Grazie a queste votazioni, veniva stilata una classifica -non ricordo se mensile o settimanale- sia per la prosa, sia per la poesia, dei componimenti più graditi al pubblico.
Tutto sarebbe stato molto bello, senonché mi accorsi subito di alcuni meccanismi sociali che nel corso del tempo si sarebbero rivelati fatali per il gradevole clima della comunità di sedicenti scrittori.
Anzitutto vigeva una sorta di voto di scambio, per cui se si voleva veder votato il proprio scritto bastava commentare qua e là un po’ a caso gli scritti di altri. 
Perché si facesse questo non lo so proprio, dal momento che falsava ogni possibile onesto riscontro del pubblico ai propri lavori, ma spesso si votavano anche cose abbastanza orrende -anche mie, beninteso- per una sorta di cortesia salottiera, accompagnando talvolta il voto con commenti di circostanza che finivano per diventare cifra identificativa dell’autore, più che dello scritto in sé: “il tuo cuore delicato traspare dalle belle parole...”, “ amo il tuo senso della vita...”, “ spero che un giorno qualcuno saprà abbracciare il tuo dolore...”
Le conseguenze di questa usanza cretina erano principalmente due:  da un lato finivano in classifica quasi sempre scritti piuttosto brutti, solo perché erano popolari e compulsivi nei commenti i loro autori; in secondo luogo non erano tollerate le critiche di tipo squisitamente letterario, perché venivano lette come attacchi alla persona.
Se si osava definire una poesiola da tardo adolescente in menopausa “gradevole, ma non originale nelle immagini” -quindi non una stroncatura con il classico “è una cagata pazzesca”- si veniva subito tacciati di inspiegabili invidie verso la suddetta poetessa tardona, o chi per lei.
Diciamo che quindi era ammessa solo l’approvazione e non la critica, neppure se costruttiva.
Ogni volta che usciva la classifica poi, c’era gente che andava su tutte le furie, manco si fosse vista sfumare un prosciutto messo in palio.
Ne seguivano interventi di ogni tipo, litigi in coda ai commenti, insulti e diffamazioni a mezzo di sentito dire di amici di amici, in una rissa collettiva piuttosto beota, benché in dolce stil novo.
L’ultimo aspetto era quello relativo all’inciucio: come in ogni salotto virtuale, dietro a lettori o lettrici appassionati spesso si celavano cuori solitari in cerca dell’altra metà, capaci di trasfigurarsi per gelosia o brama di conquista.
Nascevano anche amicizie, però, come quella tra Matteo, splendido prosatore romano, e me. Un’amicizia bella, che ancora resiste alla lontananza e ancora ci fa identificare nell’altro il primo e più appassionato lettore di ogni piccola o grande pagina che scriviamo.
Un giorno Matteo ed io arrivammo al punto di tracimazione con le dinamiche di questo sito ed organizzammo una burla.
Creammo due personaggi, ciascuno con relativo account sul sito, al quale potevamo accedere entrambi indistintamente: Sylvia e Rattigan.
Sylvia perché a qualcuno venisse in mente un rimando alla Plath, accostamento invero arditissimo.
Rattigan in onore del topo cattivo di Basil l’Investigatopo, cartone animato Disney.
Sylvia era una giovane romantica, timida e dotata di una profonda vocazione lirica: scriveva poesiole, non più idiote di quelle che molta gente pubblicava sul sito, dai cui versi traspariva un timore virginale che la faceva arrossire per nulla.
Scriveva cose del genere:

         CONFIDENZIALE
Te lo sussurro
piano
che solo tuo è il pudore
di pettirosso:
io ti amo. 

L'insieme di versi e titolo era piuttosto irritante, ma Sylvia funzionava.

        FREMENTATTESA
Lampi d’arcobaleno
illuminano
il candore dei miei anni.
Già so
che tremerò al tuo cospetto.

Oppure, tediosa come poche:

          LONTANAMENTE
Basteranno queste poche ore
insieme a te
a riempire di profumi
la tua assenza?
Non chiederlo al mio amore,
fiore reciso,
che si nutre 
della dolce incoerenza.

E ancora, l’opera che portò Sylvia agli onori del podio e la fece riconoscere come uno degli animi più delicati del sito:

          EF-FUSIONI
Piccole solitudini
quando si sciolgono
corpi annodati
che l'orgasmo in se stesso
non ricolma.
E' l'anima 
a cercare abbracci
legami eterni
intrecci coi fili d'oro
della luna...

Quest’ultimo componimento conteneva due elementi assolutamente vincenti: la parola “orgasmo”, che immediatamente risvegliò gli inciucioni quiescenti che fino a quel momento avevano cercato di prenderle le misure, e i puntini di sospensione, indispensabili per qualunque poetessa dilettante, laddove voglia lasciar intuire che tutta la sua purezza è abbastanza confutabile.

Rattigan invece era una sorta di poeta maledetto, un losco figuro che viveva in una mansarda affacciata su Campo de’Fiori, un personaggio tormentato che scriveva cose astruse per dar libero sfogo alle sue ombre.

          EX- CERNERE
Sfocato primopiano
e sullo sfondo
teorie di funamboli
su precari fili di inganno
Accanto il tempo
con la sigaretta in mano
brucia i miei giorni
mentre ciò che di me è
empirico, empatico, 
diventa empio
e scivola attraverso
fredde zolle di terra.

N.B. il verso finale era “scivola attraverso fredde tubature”, ma l’allusione era troppo palese, perciò la cambiammo.

Rattigan era parecchio ermetico, quando voleva:

          IT'S  A BAD LINE
Pentimenti,
zecche annidate
nei solchi della ragione
gonfie di dubbi.
          - Tacchino arrosto con salsa?- 
Solo ergodiche
prospettive.

N.B. nell’originale rattiganiano, la domanda era formulata in inglese “ Roast turkey and redcurrant jelly?” Naturalmente tutto ciò faceva parte dell’ermetismo torvo del personaggio.

Nell’oscurità di Rattigan si celava anche un burlone, tant’è che un giorno pubblicò questa:

          URANIO
Immorale/umorale
Non
Trovo - cerco?
Riposo
In - chi fu? chi fui?
Sordide sistoli
Oniriche/onanistiche
Deflagrazioni
Intellettuali impoverite
Morendo di questa vita
Effimera - esausta!
Rivendico la resurrezione
Della mia
Anima

Neanche a dirlo, nessuno si accorse dell’acrostico, eppure i commenti furono numerosi ed entusiastici.
Credo che Rattigan raggiunse le vette della sua poetica con due componimenti, il primo mio con titolo di Matteo, il secondo di Matteo con titolo mio.

          REO CICLOPE
Luna guardinga
nel cielo scheggiato
il mio unico occhio
ti scruta
la mia mente
si sbrana
da sè
-AUTOCANNIBALISMO-
rigurgita e rumina
frusta
verità
d'inutile 
massa di creta
e stimolo
elettrico

E la sublime:

          LEGGE DI DELTA
Del mio osso
avidamente spolpi
spatola che squarcia, anima di denti
CROC CRIC CRAC
Di burattini
sospesi in aria
udendo grida, anima di legno
TIC TOC TAC
Di psicodrenaggio
di donna-catetere
risucchi il seme, anima di voglia
LIP LAP LOP
Ora va’ via
sfiniscimi di assenza
RAT-TAT-TAK

Le “poesie” - le virgolette sono d’obbligo- venivano scritte anche a quattro mani, durante lunghe telefonate notturne, oppure quando capitava: in coda alla cassa del supermercato, fermi a un semaforo, mentre si mangiava un panino, appuntate su scontrini, vecchi biglietti di qualcosa, su post-it attaccati al frigorifero, a margine di pagine strappate da un giornale. 
Ogni “poesia” non richiedeva più di dieci minuti, ma se aveva il respiro dell’ode cinquecentesca, altrimenti anche meno.
Ce le scambiavamo via mail e all’altro toccava dare il titolo.
Poi ci si sentiva al telefono e si passavano le ore a raccontarci le vite di questi due, totalmente inventate.
Sylvia amava Rattigan, che la trattava male, ovviamente perché temeva la forza redentrice del suo amore salvifico, quando lui non aveva alcuna intenzione di redimersi.
Matteo ed io progettammo di portare Sylvia ai vertici della classifica in una settimana, e Rattigan entro un mese. Cominciammo a commentare e a votare come pazzi e i risultati arrivarono subito.
Uno degli aspetti più divertenti della faccenda era che quando uno dei due pubblicava a nome di Sylvia, o di Rattigan, l'altro correva a votarlo e a lasciare commenti, quindi giocavamo a sorprenderci anche tra noi.
Sylvia seminava un po' ovunque su lavori di altri commenti zuccherosi, mentre Rattigan commentava in stile joyciano, in uno stream of consciousness senza punteggiatura, fatto di metafore sempre sul filo del litigio.
Sylvia raccattò anche un paio di spasimanti, peccato che fossero gli stessi che avevano già spasimato per me a suo tempo.
Rattigan divenne una sorta di icona per tutta la frangia underground dei poeti della domenica.


Poi accadde che un giorno entrambi decidemmo di cancellare tutto e di non pubblicare più nulla a loro nome: ci eravamo affezionati ai nostri personaggi, alcuni loro componimenti ci parevano persino belli e non volevamo più gettarli in pasto alla piaggeria imperante sul sito.
Cancellammo loro, cancellammo Bibi e cancellammo Matteo.
Fu tuttavia uno dei periodi più creativi e divertenti di tutta la nostra carriera letteraria, e grazie al cielo questo non si cancella.




<grazie di cuore a Matteo>




L'armadio delle meraviglie


Quando la nonna cucinava si sentiva un odore meraviglioso che si spandeva per le scale.
Ho abitato di fronte a lei per anni, quindi era facile suonare, entrare in cucina e rubare una polpetta prima che arrivasse nel piatto da portata. Erano irripetibili quelle polpette, tra gli ingredienti c'era un pezzettino di lei che solo lei possedeva. 
Lei si muoveva come danzando, con movimenti armoniosi e incantevoli che l’esperienza aveva reso naturali, e sapeva sempre quale piatto era il preferito di ciascun nipote. 
Io amavo la zuppa inglese, un trionfo colorato di crema pasticciera, budino al cioccolato e pan di Spagna imbevuto di liquore.
Poi giocavamo a sbarazzino e all’inizio mi faceva vincere, ma crescendo non ce n’è stato più bisogno.
La nonna era odore, soprattutto, e tatto di quella pelle morbida e chiara che sapeva di pulito, di buono, di onesto. Era curiosa la nonna, e possedeva una dignità che non ho mai più visto in nessun altro al mondo. 
Ma era soprattutto odore, e piacere dei sensi ogni volta che mi abbracciava.
Era odore anche il nonno, che ho perso troppo presto per potermi ricordare altro: sapeva di brillantina nei baffi e quando mi teneva sulle ginocchia mi sentivo rassicurata. 
Aveva gli occhi buoni e mi amava moltissimo. Forse perché ero la prima nipotina, quella che aveva addormentato correndo lungo il corridoio mentre cantava l’inno dei bersaglieri. 
Mi faceva fare tutte le foto possibili dagli ambulanti che passavano per strada. Ne ho su draghi di cartapesta, con caprette, pagliacci, piccioni e palloncini. Per lui ero bellissima, anche se non lo ero.
Gli odori…e quel piacere profondo che si prova quando si sente l’amore di una persona.
L’altra nonna mi ha insegnato a leggere e a scrivere a quattro anni, mi dettava le parole da inserire negli schemi di enigmistica, e si arrabbiava moltissimo perché non contavo le caselle, ma io le parole le vedevo, sapevo che erano giuste. 
Mi aveva insegnato a porgere con grazia il vassoio delle sue meravigliose praline agli ospiti, a salutare facendo un piccolo inchino, a camminare a testa alta e a stare composta a tavola. 
Nel mio abitino col nido d’ape, con i riccioli raccolti sulla testa, certi gesti sono diventati parte di me e ancora oggi, quando sono come al solito altrove, un piccolo accenno di inchino mi sfugge. La nonna era classe, intelligenza, cultura.
E poi il nonno, il patriarca, quello che si era arruolato volontario nella Grande Guerra come alpino.
Si faceva radere solo dal barbiere e si è sempre seduto a tavola vestito di tutto punto per rispetto a sua moglie che aveva cucinato. Aveva un senso della giustizia che stupiva e talvolta ci faceva sorridere. Organizzava ogni anno una riffa tra i quattro figli, con altrettanti “lotti” di ricordi di famiglia: pizzi ricamati dalla bisnonna, dipinti, strenne della sorella in via di beatificazione, ricordi di guerra. 
Per non favorire nessuno, un nipotino a turno estraeva l’ordine secondo il quale i figli avrebbero successivamente estratto il loro lotto. 
In quei pacchi si nascondevano tracce della nostra storia. 
Il nonno aveva un armadio delle meraviglie, nel quale teneva sotto chiave i ricordi più preziosi. In quelle occasioni lo apriva e ce ne mostrava il contenuto, ma mai tutto…qualche oggetto ogni volta, ciascuno con una storia bellissima e lontana, tanto più bella quanto più era vera e parlava di persone che erano in parte dentro di noi. Ricordo la curiosità, lo stupore, anche nel riascoltare racconti già sentiti.
Questo è stato il mio pieno di bellezza, quello che è venuto prima di Omero, della musica, dell’amore di un uomo e di tutti i cerchi che si sono allargati sul mio tronco, lasciando intatta, per fortuna, anche la bambina curiosa e stupita, che ha imparato ad annusare, a toccare, a guardare, ad assaggiare e ad ascoltare.



Mi dicono che ho un carattere difficile, ma forse è solo perché ce l’ho.
Forse ho imparato a conservare in un armadio delle meraviglie i miei ricordi preziosi e non temo la malinconia. 
Ho un carattere difficile, lo so, ma non mi piace gridare, trovo inutile la scortesia, penso sempre che anche le verità più dure possano essere presentate in bel modo. 
Difficile perché amo la chiarezza, perché l’integrità delle persone che mi hanno riempito la vita quando ero piccina ha gettato fondamenta indistruttibili. 
Quando il nonno apriva il suo armadio delle meraviglie potevo solo dire cosa avrei fatto da grande, ma non sapevo neppure cosa volesse dire essere grande.
Poi la vita gioca con i nostri destini a volte in modo crudele e da grandi sembriamo molto diversi dai bambini stupiti che siamo stati.
Eppure quella bambina c’è, ogni tanto vorrebbe mollare e smettere di cercare ancora quel guizzo di stupore, ma poi i nonni ritornano, in ogni gesto, nei rituali, nei pensieri, nello sguardo con cui osservo il mondo e allora ricomincio a credere che sia possibile.
Possibile ora, da grande, adesso che sento bisogno e voglia di quiete, trovare qualcuno che abbia voglia di aprire il mio armadio delle meraviglie, abbia la pazienza di ascoltarmi, ben sapendo che non aspetto altro che aprire il suo armadio delle meraviglie e ascoltare la storia di ogni minimo momento importante della sua vita.
Occorre solo avere un po’ di tempo per fermarsi e stupirsi ancora.



sabato 29 dicembre 2012

Brasato


Non è che lo faccio spesso, il brasato.
Anzitutto è un piatto molto costoso, in secondo luogo è facile, ma brigoso.
Questa volta però ne avevo davvero voglia e il macellaio mi ha preparato un pezzo di manzo da un chilo e mezzo che era spettacolare anche crudo.
L’ho messo a macerare con tutte le spezie, immerso nel vino, che non era Barolo.
Certo, se non si è chef, basta un vino simile, bisogna solo avere l’accortezza di farlo bollire due minuti prima di usarlo. Dopo due minuti di bollitura tutti i vini diventano più o meno uguali, se non si è chef.
Poi l’ho coperto e l’ho lasciato riposare.
Ogni tanto andavo a girarlo e a parlargli. Lo osservavo per capire se davvero si stava frollando, o se fingeva.
Un giorno intero così, ventiquattro ore.
Al momento della cottura lui era esausto, io tesissima.
Far rosolare un pezzo simile richiede grazia e massima attenzione: la crosticina deve essere uniforme, non troppo spessa, non troppo dura, e se in un piccolo punto diventa troppo scura l’incanto si spezza.
Per sicurezza, sul fondo della casseruola ho abbondato con olio e burro, che poi ho fatto sgocciolare fino ad eliminarli quasi del tutto, perché non restasse troppo grasso oltre a quello del lardo di Colonnata destinato a sciogliersi durante la brasatura.
Poi è iniziata la maratona del fuoco lento, quella che già dopo un’ora impregna la casa di un aroma spesso, lievemente alcolico, invernale e antico.
Ogni quarto d’ora provvedevo a girarlo, mantenendolo sempre umido e allungando il sugo di cottura con il brodo. No, non il brodo granulare: quello della pentola, quello di cappone, polpa, doppione e coda, per intenderci.
Altre tre ore così, sul filo della tenuta nervosa, rischiando grosso con la pentola di coccio, che è generosa e accogliente, ma suscettibile al fuoco troppo vivace. 
Pentola di coccio, sottopentola di ghisa, brasato che bolle per tre ore: sto invecchiando, davvero.






Infine, l’ultimo passaggio.
Ho raccolto la carne, perfettamente uniforme e l’ho deposta su un piatto da portata. 
Non è un caso che fosse una porcellana degli anni Trenta.
Poi ho preso il passaverdure. Quello manuale, quello con le rotelle.
Ho macinato, verificato la consistenza del sugo, aggiunto un cucchiaio di maizena e, già che c’ero, le verdure della pentola del brodo, in modo da farne una crema.
Ora la carne andava tagliata, sottile, senza romperla.
Il mal di schiena condiziona da giorni la mia mobilità, ma ho stretto i denti in questa impresa che ormai era diventata eroica: ho combattuto le fitte fino all’ultimo, tenendo ferma la carne con la mano, in modo che si sentisse rassicurata dal contatto.
Mi è riuscito tutto, come in stato di grazia.
Le fettine sono state deposte nuovamente nella terrina di coccio, coperte dalla crema.
E’ restato così una notte.
Ha ripreso una cottura lentissima mezzora prima di essere servito, solo per scaldarsi.
Ho aggiunto l’ultimo mestolo di brodo ed ho lasciato che andasse.
“Io ho fatto il possibile”- ho pensato- “ il resto è karma.” 
Quando l’ho servito in tavola, accompagnato dal suo purè, un po’ tremavo.
Si è sciolto in bocca, memorabile, commovente, semplicemente perfetto.
Un equilibrio di aromi che aveva del miracolo, tutti distinguibili all’olfatto, tutti armonizzati al gusto, tutti ammorbiditi al tatto, tutti amalgamati alla vista in una densa crema rossa nella quale permaneva il vago ricordo del vino.
Non parlava, peccato.
Meraviglioso, il mio brasato è venuto meraviglioso.
Come si cambia però, con il tempo: una volta potevo frollare per tre giorni un manzo di novanta chili, ora raggiungo la perfezione  con un chilo e mezzo di manzo.






venerdì 28 dicembre 2012

Di cibo

Non penserete mica che io intenda postare ricette?
Quelle, al massimo, le divulgo a una stretta cerchia di amici intimi che certamente non le inflazioneranno. 
Se dovessi mai rendere pubbliche le ricette di certe mie specialità, farei come la mia nonna paterna, gran signora borghese abituata a ricevere in salotto: le trasmetterei sbagliate.
Non sbagliate in modo grossolano, ma semplicemente tralasciando qualche piccolo dettaglio in modo da non farle riuscire allo stesso modo, ma non così male da far sospettare di me.
E dire che quando cucino non sono affatto animata dallo spirito del grande chef, non me ne frega niente della ricerca, dell'innovazione, o di travestire da Monna Lisa una carota, deponendola con il suo enigmatico sorriso su un desolato paesaggio di creme di rafano e lacrime di aceto balsamico.
Io cucino quello che amo mangiare, cibi molto tradizionali, spesso semplici, se non poveri.
Se mi chiedete di scegliere tra un ristorante a tante stelle e una trattoria, scelgo la seconda, perché non amo i francesismi nel piatto e non so resistere al friggione.
Amo cucinare perché sono golosa e mi piace vedere mangiare le persone che amo.
Cucino perché sono una creativa dispersiva e sensuale, perché se penso alla bellezza di una donna, vedo la mia nonna materna che frigge i crescioni romagnoli, o la mamma che a mezzogiorno e mezzo tira la sfoglia per le tagliatelle che mangeremo all'una.
Cucino perché mentre lo faccio loro sono lì, con me, anche se non ci sono più da tanto tempo.
E quando porto in tavola qualcosa di buono, sto in ansia, come le nonne e la mamma, e aspetto i complimenti, o di vedere dei sorrisi.
Cucino e mangio, di gusto.
Perciò di cibo, di gusto e di gioia.








giovedì 27 dicembre 2012

Di musica

Di musica, perché è di musica che sono fatta io.
Passione antica, credo nata con me.
Da quando ho memoria, ricordo musica nella mia vita: ne ascoltavo da piccolissima, quella dei vinili a 45 giri dei miei genitori, perlopiù soul, R&B, musica melodica  e canzoni italiane degli anni Cinquanta erano la colonna sonora dei miei primi anni.
Poi quella che ho cominciato a scegliere io: quando ero bambina amavo Gianni Morandi, ma del resto sono stata bambina negli anni in cui Gianni ha fatto il militare e con la scusa del latte cercava di incontrarsi con Laura, la sua morosa. 
Già alla fine delle elementari stravedevo per Mina e Lucio Battisti e mettevo da parte le paghette per comperare i loro dischi, che ascoltavo con una specie di carriola come questa qua sotto.

Poi, ad un certo punto, non so neanche esattamente cosa sia successo.
D'un tratto il mio mondo ha smesso di essere in bianco e nero.
Quando ho scoperto la musica rock ero ancora alle scuole medie ed ero una ragazzina di buona famiglia, abbastanza bruttina e molto studiosa, rispettosa delle regole e con un orizzonte piuttosto limitato, nonostante le tante letture, le tante domande e l'intelligenza curiosa.
Il rock è entrato nella mia vita come un treno in corsa e l'ha riempita di colori, ha aperto un panorama infinito di emozioni che mai avrei pensato che esistessero.
Il rock ha operato su di me una trasformazione così radicale e profonda, che spesso mi chiedo chi sarei senza la musica.
Di certo non sarei io.
Non è che sarei io, ma diversa: no, sarei proprio un'altra.
Avrei un'altra faccia, un altro modo di vedere le cose, altre aspettative e desideri, avrei fatto altre scelte, amato uomini che non mi piacciono, avrei figli che non sono i miei ed amici che non conosco.
Spesso penso che non amo la musica perché sono fatta così, ma sono così perché amo la musica.
Altrettanto spesso penso a quanto sono fortunata: avere una passione così grande, che dura da tutta la vita e non accenna a spegnersi, non è mica cosa da tutti.
La musica è ispirazione, stimolo, rifugio, abbraccio, sangue che mi nutre.
Amore, insomma, il grande amore della mia vita.

Se qualcuno ha voglia di ascoltare la mia musica, come la sento io, vada a curiosare tra le recensioni vintage di agesofrock.wordpress.com 
Clara sono io, che ora la mia musica me la porto sempre dietro con questo qui sotto.






mercoledì 26 dicembre 2012

Il mio muso ispiratore

Questo qui è il mio cane.
Cioè, questa qui  è il mio cane, perché è una femmina.
Si chiama Menta, ha quindici anni ed è un cane di razza Bellissimo, intriso di prestigio e bontà.
Nella foto era molto più giovane.
E' la prima foto che pubblico sul blog, perché "Bau2.0" me l'ha suggerito lei, che è una nativa digitale.
C'è chi posta, chi chatta e chi twitta.
Noi abbaiamo.



Un Blog chiunquista

A me piace pensare.
Mi piace anche scrivere.
Amo scrivere quello che penso, visto che penso ciò che scrivo.

La scorsa estate, davanti a un buon prosecco, dopo un bel po' di chiacchiere, un'amica mi ha detto:       "Bibi, ma perché queste cose che dici non le scrivi?"
"Lo farei, se trovassi una buona storia"- le ho risposto.
"Ma non c'è nessun bisogno di una storia, di quelle siamo pieni, e spesso non sono neppure buone storie. Abbiamo più bisogno di pensieri nei quali riconoscerci. A me piacerebbe leggere da qualche parte le cose che mi hai raccontato stasera. Hai vissuto abbastanza, molto intensamente, condividi ciò che hai imparato."- ha insistito lei.
Ho tagliato corto: "Ci penserò".

Poi, poco tempo dopo, un'altra amica mi ha detto le stesse cose, e le due non si conoscono. 
M'è pure tornato in mente che un'altra amica me lo aveva proposto quasi tre anni fa.

Ci ho pensato su, mi sono presa del tempo e so che per certe cose sono davvero lenta.
Il timore è sempre quello del giudizio, non tanto quello degli altri, ma il mio, che è il più feroce di tutti.
Il giudizio di una persona che ha davvero vissuto abbastanza e molto intensamente, ma non ha fatto nulla di così speciale da dover essere raccontato, salvo vivere meglio che poteva, cosa che continuo a fare con gusto.
Non credo che ciò che scriverò sarà così rivoluzionario, né così originale da non poter essere pensato e scritto da chiunque, però magari io ho voglia di farlo mentre la maggior parte degli altri chiunque sente di avere più talento e inclinazione per faccende diverse.
Così il Blog me lo sono fatto, come regalo di Natale.

Un Blog all'insegna del chiunquismo, che a pensarci bene, a differenza del qualunquismo, è una buona e nobile cosa.